Commento

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v. 1:larga: De Riquer spiega che largaè da leggersi in questa sede come il castigliano largo, ossia ‘liberale, generosa’. Arnaut Daniel è il primo a fare uso dell’aggettivo con questo significato, in relazione ad Amors, innovazione non ha avuto seguito nella successiva produzione trobadorica, dove il termine compare sempre nell’accezione di ‘larga, ampia’. Solo Raimbaut de Vaqueiras (Era.m requier sa costum'e son us, 16 “larga d’aver e de doussa coindanssa”) si colloca sulla scia di Arnaut, differenziandosi però dal predecessore poiché utilizza il termine per esaltare le virtù di una dama.
Sul concetto di larguezae sui suoi sviluppi, a partire dal collegamento originario con i lamenti sulla decadenza del mondo, cfr. Köhler, Sociologia della fin’amor,pp. 39-79. Nei versdi Marcabru la liberalità è un determinante valore positivo per la società ed è legata all’esercizio delle virtù cristiane. Il delitto dei potenti è aver dimenticato che proprio la liberalità, che trova nella legge divina il suo fondamento, è la base della loro esistenza: larguezasta a proeza, come escarsetatsta a malvestat.
I trovatori della generazione seguente procedono ad un attacco diretto alla ricchezza e ai suoi detentori e la critica all’avarizia viene portata alle estreme conseguenze: basta possedere dei beni per essere avari. Nei componimenti di Folquet de Romans prolarcsi oppongono nuovamente a malvatavar, mentre  Giraut de Bornelh spiega la missione etica della nobiltà (che è stata istituita da Dio in base al valore degli uomini) a partire dalla sua inalienabile obbligazione nei confronti di tutta la società, in cambio di una posizione di privilegio; la liberalità è inoltre per Giraut l’unico metro possibile per valutare le qualità dell’individuo. La largueza, a causa dei mutati rapporti fra aristocrazia e piccola nobiltà, assume un ruolo predominante nella scala dei valori cortesi e finisce con l’occuparne il primo posto, precedendo per importanza la stessa cavalaria. Nella tarda poesia trobadorica l’esercizio della liberalità è regolato da un intero sistema di norme, derivanti in parte dall’ideologia feudale e dal mondo dei giullari ed in parte dalla tradizione cristiana; l’arte del donare e del chiedere divengono un momento centrale dell’etica cavalleresca. La speranza di ottenere i favori della dama in breve tempo, senza lusinghe o preghiere, costituisce un elemento essenziale nell’ideologia amorosa dell’epoca; tale concetto sembra completamente riducibile alla sfera del servizio amoroso, e rivela l’influsso della tradizione classica o cristiana: per individuare il nucleo originario di questo atteggiamento bisogna però risalire al rapporto tra signore e vassallo, che determina anche il concetto della mezuraed altri fondamentali aspetti della fin’amor.
v. 2: ferm cor: lo stilema, oltre che dallo stesso Arnaut DanielL’aur’amara, 45 “ma·l cors ferms fortz”, viene utilizzato da Gaucelm FaiditD'un amor, on s'es asis, 2 “mos ferms cors fis”; Arnaut de Maruelh Anc vas amor, 9 “mas sol d'aitan c'ab ferm cor et ab clar” (e vedi anche Ses joi non es valors, 13 “fin cor e ferm voler”); sarà ripreso da Aimeric de Peguilhan En Amor trob, 33 “dompna, en vos ai mon cor tant fin e ferm”; Aimeric de Belenoi Al prim pres, 11 “e si·m sentis lo cor ferm” e ivi 35 “me fezessetz ab cor ferm”; BnBond Tot aissi·m pren com fai als assesis, 21 “e qe ames ab ferm cor fermamen”; Blacasset Volgra que·m venques merces, 14 “plus. mas ab ferm cor aturan”; Gauceran de Saint-Didier El temps quan vey cazer fuelhas e flors, 35 “joys e ferms cors e tota lialtatz”.
v. 3: Canello edita «Ja per gran ben nom calgra far embarc» ed interpreta: «Per la grandezza del bene ch’io cerco non opporrei difficoltà»; Lavaud, Toja e Wilhelm riprendono il testo Canello e traducono rispettivamente il verso: «assurément je n’aurais besoin, en échange d’un bien considérable, de souscrire aucune obligation»; «nulla sarebbe per me, in cambio di un gran bene, contrarre debito alcuno» (e in nota: «L’amore di Arnaut, cioè, è un sì grande tesoro, che vale la pena per possederlo di contrarre qualsiasi obbligazione»); «never for the great good (to come) wuld it vex me to be indebted»; Riquer 1975, II, p. 640, sulla base di una glossa del canzoniere H, sottolineava l’accezione mercantile di embarce rendeva «non avrei bisogno di contrarre un debito per (conseguire) un gran bene», Perugi è il primo a fornire un testo differente da quello canelliano editando differentemente: «Ja per granjor no·m calgra far embarc», che traduce «Allora per [gioia] più grande non sarei costretto a indebitarmi». Eusebi si attiene alla lezione di Chf ed edita: «ja de mos jorns no.m calgra far embarc», traducendo «non mi importerebbe impegnare i miei giorni» e il medesimo testo viene reso da de Riquer «no necesitaría embargar mis días», che così interpreta il senso dei tre primi versi «Si Amor fuera generoso en dar gozo al trovador éste no se vería precisado a pasar sus días como si hubieran retenido si felicidad (es decir, como si estuviera transtoriamente en poder ajeno» (de Riquer 1994, p. 100). 
Per ciò che riguarda l’interpretazione dei singoli lemmi, Lavaud annotava che «Ja nonest à rendre ici par ‘assurement pas, pas du tout (Levy, IV, 243, 6), plutôt que par ‘jamais’», e, analogamente per Toja «iaqui vale ‘assolutamente, affatto’ e non ‘giammai’, mai’ (SW, IV, 243, 6)»; sempre Toja riteneva, a mio avviso giustamente, che «il pernon ha valore causale, ma significa ‘in cambio di, in luogo di’ (pro)»; ad avviso di Canello, sempre nello stesso luogo «Il senso sarebbe più esplicito, mutando il perin pel; e forse l’oscurità prodotta dal perindusse i mutamenti varii che abbiamo specialmente nei codici della second famiglia [scil. CRVMMcSP]». 
Le differenze fondamentali, come risulta evidente dalla collazione, riguardano: la scelta di benvs jor(= joi) e la differente resa del sintagma far embarc. Perugi affronta approfonditamente il problema, elencando tutti i luoghi in cui la tradizione si diffrange:
(1) ia (per/de) gran benABDFQSgVc : ia per nulh beR : ja per gran joiH2
2) ia de mos iornsmon iormon ioiCH1M (cui va aggiunto f)
3) jamais per ioiIKN2
4) ja per amarPS
Secondo Perugi, «l’unico segmento sicuro appare per(essendo deCH1MSg un evidente portato faciliordi β), mentre chiari appaiono i rapporti di contaminazione che caratterizzano H (in doppia redazione, M (ioi) e Sg (de)». Quindi congettura una lezione granjor, «per segmentazione della quale proverrebbero da una parte gran-(donde granben), dall’altra jor(donde mo(s) ior(s)) o joi(donde gran ioimon ioi/mais…ioi)»; la diffrazione sarebbe rivelata – spiega Perugi – dalla doppia redazione di H. Il termine granjorsarebbe, sempre secondo Perugi, «comparativo organico, che nella fattispecie si riferisce a joi» e «sembra estremamente raro in apr. FW documenta granhors.v. grandis, ma cfr. anche Gfaid 47.54 gregnorN] senhorain una tenzone farcita di pittavinismi: ora poiché greignorè di gran lunga più frequente in afr., potrebbe trattarsi di un altro fra i numerosi prestiti oitanici presenti nel canzoniere arnaldiano». Il parallelo prodotto a legittimazione della congettura da Albertet 17.28 (in tenzone con Gaucelm Faidit), è fondato anch’esso su lezione congetturata dal medesimo critico e, di fatto, la lezione proposta d Perugi risulta fondata esclusivamente sulla base di una congettura che genera un hapax. Di fatto, la scelta della lezione per il primo emistichio, dipende dal senso complesivo del verso e soprattutto dall’interpretazione che diamo a far embarc.
             far embarc: per Canello ‘opporre difficoltà’. L’accezione ‘indebitarsi’ (che ad avviso di Perugi «riecheggia parodicamente il precedente larga») è stata proposta da Levy, il quale, riteneva oscura la traduzione di Canello e commentava: «Der Sinn der Zeile muss doch sein “dann hätte ich Freude genug oder in Überfluss”. Dürfte man übersetzen: “dann brauchte ich, um grosses Wohl, Glück (zu haben) nimmer Schulden zu machen (sc. Weil die Liebe mir dessen genug gäbe)?» (quindi «non avrò mai bisogno, per avere un gran bene, di contrarre dei debiti»), A supporto di questa intepretazione milita una serie di carte in cui embarcfigura insieme a deute, con il senso di ‘Verpflichtung, Verblindichkeit, Schuld’ (cfr. «tots nostrres embargs pagatz», «E si alcus hom d’alcuna de las dichas vilas deu deutes o embargx o es tengut d’alcu covent ad alcu home d’alcuna de las dichas vilas», «Tot hom deu esser segurs, …que ja, per embarc que deja, son cors pres no sia» «E si algus moria descofes, que tots sos bes…sian de sos heretes…totes ses deutes e sos embarcs premierament paguatzs», «E.ls senhors an aital costuma entre lor, que no.i devo penhorar lors cavals ni lors garniments, si no o fasian propriament per l’embarc del mezis caval o dels mezis garniments o per l’enfrangemen dels dex o de costumas o per jog», ecc.). L’interpretazione di Levy era accolta da Lavaud, che traduceva embarccon ‘obligation’, (‘obbligazione’, in senso economico) e spiegava così far embarc: «désigne, je crois, l’action de souscrire une obligation, d’immobiliser un gage», rinviando alla glossa del Donat provençal“impedimentum” e a L. Piat (Dictionnaire français-occitanien, 2 voll., Montpellier, 1893-94): «empêchement, embarc, de consentir une hypothèque en garantie d’une somme prètée ou d’un objet vendu; il peut avoir dans ce dernier cas une reprise par saisie de ce gage naturel». Toja seguiva alla lettera l’intepretazione di Levy e Lavaud, ritenendo che il miglior significato per embarcsarebbe quello proposto dal Levy: ‘debito’. Perugi riasume la situazione critica, senza nulla aggiungere, se non l’interessante notazione per cui «embarc in questo caso riecheggia parodicamente il precedente larga», sottolinendo che «al v. 9 embarjaha il valore più corrente di Don. prov.43a.31 “embarcs, impedimentum”».
Tutti i commentatori riportano la glossa presente al margine del canzoniere provenzale H, di mano del copista principale, con la quale si tenta di fornire al lettore indicazioni utili a chiarire il significato del sintagma «no·m calgra far embarc» e quindi dell’intero verso 3. La questione dei marginaliadel canzoniere Hed in modo particolare di questa chiosa, non è stata approfondita dai precedenti commentatori che, al massimo, si sono limitati a fornire il testo della glossa.
Eccone la trascrizione interpretativa: «aillors ditz. Ia per gran ioi nom calgra far embarc. Id estdebita. So es suiscebre. Don eu fos embariatz. So es embrigatz per debita». La glossa è edita da M. Careri, Il canzoniere provenzale H. (Vat. Lat. 3207), Modena, Mucchi, 1990, pp. 281-2 fra le “note critico-testuali” (“tipologia” D) all’interno del sottogruppo “divergenze di lezione” (punto a). L’editrice non fornisce una traduzione, ma rinvia alle edizioni Eusebi e Perugi, nelle quali la glossa non è sciolta. Un’interpretazione complessiva potrebbe portare all’integrazione della stessa anche nei raggruppamenti relativi a: “traduzione alla lettera” (A); “traduzione con spiegazione” (B); e forse anche “note storico-letterarie” (C). Subito dopo aver riportato la variante al v. 3 «aillors ditz. Ia per gran ioi nom calgra far embarc.», il glossatore traduce in latino quest’ultimo termine (“id est debita”). Per l’etimo del provenzale embarcil REWindica lat.*imbarrĭcarecon il significato di ‘versperren’ (‘serrare, bloccare’), da questa forma sarebbe derivato embargar(catalano, spagnolo e portoghese), con il significato di ‘hindern (‘impedire, ostacolare’) e il sostantivo embargodello spagnolo e del portoghese. Il FEWinterpreta embarccome composto di in + *barra(‘querstange’, quindi ‘sbarra’), ipotesi confermata anche dal GDLIriguardo alla voce italiana embargo(‘sequestro di una nave’), calco a sua volta dello spagnolo embargar: «dallo spagnolo embargo‘impedimento’ (docum. Dal 1020 nella locuz. Lat. sine ullo embargo‘senza alcun impedimento’; poi nell’espressione corrente sin embargo‘non ostante, tuttavia’); deverb. da embargar(sec. XII) ‘impedire’, dal lat. volg. *imbarricare(forse da *barra, cfr. Barra) da cui il prov. antico embargar, ‘impedire, frapporre impaccio’».
Nel DCECHsi legge che embargar, documentato per la prima volta nel Cid, con il significato di ‘intralciare, impedire’, è voce comune alle tre lingue romanze ispaniche ed alla lingua d’oc deriva da un verbo *imbarricaredel latino volgare o romanzo primitivo di questa zona, probabilemente derivato di *barra; questo termine proverrebbe a sua volta dalla voce preromana barra, che il Glosario Hispano-arabedel sec. XI cita (nella forma varre) nel senso di ‘sbarra per fermare la porta’. Il sostantivo embargoassume il significato di ‘preoccupazione’ già in Berceo e non è assente in castigliano anche nel significato di ‘pignoramento’; dal castigliano derivano il francese embargoe l’italiano imbargoembargo‘sequestro, detenzione per ordine di autorità’. 
Gli esiti romanzi presi in esame sembrano indicare il nesso della parola con l’idea di ostacolo e, quindi, con quella di impedimento o blocco imposto a se stessi o ad altri, delineando in questa direzione il campo semantico del termine. L’embarccui si riferisce il copista è interpretabile come l’impossibilità di fare qualcosa poiché si è serrati, bloccati in una data condizione. La glossa del copista di Hinterpreta il lemma embarcindicando prima il corrispondente latino debitae, a seguire, per interpretare l’intero sintagma “far embarc” riporta: «So es suiscebre. Don eu fos embariatz. So es embrigatz per debita». le voci romanze: suiscebreembariatzembrigatz. Il senso di questa parte della glossa non ha ancora avuto, a nostra conoscenza, un’interpretazione compiuta; a mis avviso il lemma suiscebrepuò essere accostato agli altri derivati occitanici del lat. suscipĕre(‘prendere su di sé, subire, sostenere, intraprendere un’impresa’). Il REWriporta la forma susciperetraducendola con ‘aufnehmen’ (‘sollevare, iniziare’), il FEWmenziona l’esito dell’ antico provenzale soisebre‘prendre, percevoir, imaginer’, da cui Bertran de Born soiseuput‘pris au hasard’, e lim. soisseubut‘distingué, formé de traits choisis’. Wartburg inoltre annota: «Lt. Lebt nur in gallorom. Und auch hier fast nur in occit.». Interessante anche l’esito di susceptor, suscepteur‘celui qui protège qn, qui a soin de qn’ e nfr ‘officier qui était chargé par les décemvirs de recueillir les impôts (t. hist. rom.)’ e anche ‘celui qui reçoit les ordres sacrés’. Du Cange testimonia l’uso del termine susceptorescon cui venivano indicati i padrini battesimali, vale a dire coloro che sostengono il battezzato e si impegnano nell’impresa della sua crescita spirituale, assumendo un incarico particolarmente impegnativo, dal quale non ci si può svincolare. 
DalfAuv 119.3, vv. 37-40:
 
Tu es ioglaretz novels,
ogan no cre recepchas
draps entiers envoutz de pels,
ni as don los soisepchas;
 
ElCair 133.2, vv. 5-8:
per qu'ieu ai talan que fassa
saber lai en terra grega,
tal vers que ma domn'entenda,
don vuolh ma razo soissebre:
 
 
AimPeg 10.47, vv. 9-16:
 
si per merce fetz Amors apercebre
la bella que mos precs non apercep
que deignes me per servidor recebre,
mout feira be, e faill car no·m recep.
non sai per que m'auci ni·m vol decebre,
que bona fe l'ai on plus mi decep.
non a en se merce, si no·n soisep;
mas orguoill cre, que no·n li cal soisebre.
 
Dunque susciperesi riferisce all’atto di prendere un impegno su di sé, ossia prendersene carico. In questo caso, mi sembra che il lemma vada inteso nel contesto pieno della glossa «So es suiscebre. Don eu fos embariatz. So es embrigatz per debita», con una consecuzione di chiarimenti successivi dei lemmi utilizzati: la sequenza «So es suiscebre. Don eu fos embariatz», va intesa tutta di seguito, con il senso ‘cioè percepire (del denaro), per cui io fossi indebitato’ quindi Non mi interesserebbe fare dei debiti’, la parte seguente spiega embariatz, che appunto sta per «embrigatz per debita», locuzione mistilingue occitano e latino, con il senso di ‘vincolato dai debiti’, laddove embrigatzè participio passato di embregar(LR, II 256 ‘embarasser, empêtrer; SW, II 360-62 ‘sich befleissigen, sich inlassen auf, sich abgeben mit’, ed anche ‘in Ungelegenheiten bringen’, come l’italiano imbrigare. GDLI, s.v. fornisce i seguenti significati: ‘assillare con fastidi o preoccupazioni o incarichi molesti; seccare, importunare’, ed anche ‘impacciare disturbare; ostacolare, intralciare, impedire’, ‘imbrogliare, confondere’, ‘legare, vincolare’, è dervato da briga, ‘che nell’italiano antico sta per ‘impegno e fatica nell’operare’.
 
GlDur, 214.1

tant ama pretz e·l col e tant se·n carga  
10 que plazer deu als pros quar elh fo anc;
11 e qui aras se met en tal embarc
12 de sostener valor, qu'a pauc non tomba,
13 deu ne aver doble grat e bon nom;
14 si s'a, qu'el pot e sap e vol valer;
15 e negus hom no pot esser valens,
16 si pretz de so qu'a dat a luy, non presta.

 
 
In conclusione, si potrebbe avanzare la seguente ipotesi di traduzione della locuzione far embarc: ‘prendere su di sé un impegno economico fortemente vincolante, indebitarsi fino al collo’. Il lemma soisebreritorna anche in Aimeric de Peguilhan, Ses mon apleich non vau ni ses ma lima, 16 “Mas orguoill cre, que no.n li cal soisebre” con riferimento alla donna amata e all’amore non corrisposto. Quindi, mettendo sullo stesso piano il Gioco e l’Amore, i termini riferiti ad uno possono valere anche per l’altro perciò, soisebree quindi anche embarc, apparentemente usati per parlare dell’amore, con i rispettivi significati di ‘prendere in prestito’ e ‘impegnare’ potrebbero far riferimento al gioco, in questo caso al gioco d’azzardo, e magari anche ai debiti che a causa di quel gioco si possono contrarre. Questa ipotesi troverebbe conferma nel fatto che sia Arnaut Daniel sia Aimeric de Peguilhan risultano immersi nel mondo del gioco d’azzardo: anche Aimeric, infatt fa esplicitamente riferimento ad esso nel suo noto componimentoAtressi pren com fai al jogador, in cui si paragona ad un giocatore. In entrambi i poeti, de resto, ritorna l’utilizzo di caras rimas(cfr. in Aimeric Ses mon apleich non vau ni ses ma lima, 5 “Ni plus adreich obrier en cara rima”). Infine un altro punto di contatto è costituito dalla condivisione di una poetica del disprezzo dei beni terreni a favore dell’amore per la donna; cfr. il commento ad Arnaut Daniel Ab guai so cuindet eleri, 43 “Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura”. Il lavoro e il profitto sono intimamente legati alla poetica di Amore: non profitto terreno, ma superiore gloria costituita dalla bontà del canto.
Ho dimostra in altra sede come i trovatori abbiano anche utilizzato fin da Giraut de Bornelh la metafora del “capitale” come bene che cresce o diminuisce; con il XIII secolo e con il trionfo dell’economia monetaria questa metafora dilaga in numerosissime poesie trobadoriche (Canettieri 1999). Proprio in uno dei componimenti di Aimeric de Peguilhan troviamo l’applicazione più stringente della metafora del captalsalla fin’amorsPus ma belha mal’amia, 2 “m’a mes de cent sospirs captal”. Qui il capitale è costituito non dal denaro, o da altri beni materiali, ma dai sospiri della dama; infatti poiché la bella e cattiva amica del poeta lo ha dotato di un capitale di cento sospiri, egli, come un leale «capitalista» (captalier), li ha fatti crescere di mille al giorno. La metafora del captalstorna quasi identica in un’altra canzone di Aimeric de Peguilhan, Totz hom qui so blasma que deulauzar, 48 “Tan n’ai d’onor que ben cobri.l captal”, dove incontriamo anche il motivo del sobreplus, il «sovrappiù», cioè la quantità in più di valore che può essere reinvestita dal capdaliersenza compromettere il capitale. Il trobar, che ha il suo fondamento nel donar, nel dare, e nella largueza(si veda sopra il commento a larga) non doveva avere, almeno in apparenza, fini di lucro e non doveva generare profitto; il fin’amairenon poteva in alcun modo essere amassaire(amarin più casi si oppone ad amassar). L’accumulare beni e ricchezze è contrario ai principi cortesi, non bisogna né capitalizzare il denaro né, tanto meno, accumulare ricchezze, ma è necessario saper donare; bisogna infatti ricordare ancora una volta che gran parte del trobarsi reggeva sulla generosità.
D’altronde anche l’analisi del termine embrigatzpresente nela medesima glossa di H porta in questa direzione ermeneutica. Il verbo embrigar (<in+bricare< briga) indica l’essere impacciati in una situazione difficile che procura affanno, come ad esempio un raggiro o un imbroglio, una circostanza nella quale si è bloccati da un ostacolo. Il significato di ‘prendere’, ‘sostenere’, ‘intraprendere’ è probabilmente collegato al mondo dell’usura e dei debiti di gioco.
4: Il senso del verso è che il pensiero di coltivare un così alto amore al tempo stesso innalza e abbatte il poeta. La cooccorrenza di am autè presente, nella lirica trobadorica, unicamente in un altro caso: nella canzone di Raimbaut de Vaqueiras Era·m requier sa costum’e son us, v. VV:dove abbiamo il medesimo sintagma “q’ieu am tan aut”. Le due canzoni paiono essere in relazione tra loro: anche nel testo di Raimbaut de Vaqueiras, difatti, si dice che il poeta è in debito con l’amore, così come per Arnaut. Lo schema seguito è inoltre il medesimo, e ciò è particolarmente evidente nella prima strofa di entrambi i componimenti: si tratta inizialmente del debito contratto con Amore, si procede poi sostenendo di amare “tanto in alto” (con medesima locuzione); per entrambi i trovatori, infine, la donna amata è al culmine del pregio. Ulteriori analogie consistono nei termini usati all’interno dei testi: sospirappare nel v. 2 di Raimbaut ed al v. 26 di Arnaut. I sospiri sono parte costitutiva e segno incontestabile d’amore per i lirici provenzali i quali, parlando del sentimento affettivo come di un affare economico, paragonano i sospiri ammassati nel bramare per una donna al capitale, e questo è il senso con cui il termine è usato nelle due canzoni. In ultimo, vi è il ritorno della parola larc/larga, con il significato di ricco/a, generoso/a.
Per quanto riguarda la scelta fra le tre varianti pes espes espers, il Canello leggeva il verso “Qu’ er am tant aut quel pes mi poia em tomba”, spiegando elegantemente ed accuratamente le motivazioni della scelta pes: «Accogliamo la lezione di AB, confortata da C, perocchè a suo favore militano anche i codici che leggono qu’es pes qu’espes(DVMMcf). Infatti questa lezione, che pur essa ha appoggi in ambedue le famiglie, o s’intenderà “che questo (es = est) pensiero” [...] o si vorrà dividere : qu’espes, e veder qui un riflesso del lat. spes‘speranza’ [...] questa interpretazione, d’una certa apparente chiarezza, sedusse parecchi copisti, che mutarono l’espes, insolito o inaudito, in espersvolgatissimo per ‘speranza’. Secondo noi, la genesi delle varianti di questo verso sarebbe: quel pes→ que∫ pes→ quespers». Toja segue Canello, leggendo il verso: “q’er am tant aut qe·l pes mi poi’ e·m tomba” e sostenendo in nota di aver scelto la lectio difficilior“quel pes”, sostituita da altri copisti con «varianti più scadenti» quali qu’espes,qu’espers. Per il Perugi, invece, il verso andrebbe così letto: “que am tant aut qu’espes me puei’ e·m plomba”,per «i rilievi statistici» e per «motivi stemmatici imprescindibili». Nella lirica trobadorica è molto alta (circa trecento volte) la frequenza del lemma pes(nel’accezione Levy: ‘pensée’, ‘pensiero’), di contro alle 24 occorrenze di espes, ‘speranza’, e le 47 di espers.
tomba / plomba: la variante potrebbe indicare un’area di contaminazione del verso. A differenza del Canello e del Toja che lo segue, che leggono tomba, il Perugi legge plombacol Lavaud, e questa è probabilmente la lezione corretta, in quanto così come la sonda appesantita dal piombo affonda facilmente in acqua, la speranza dell’amore è in grado di far precipitare il poeta. Il verso sintetizza la condizione dell’innamorato, il quale, agognando per l’amata, passa repentinamente da uno stato di leggerezza indotto dalla speranza della soddisfazione amorosa, all’abbattimento conseguente la perdita di tale aspettativa.Secondo Lavaud per plombasi può tenere presente l’italiano “piombare”: ‘tomber a plomb, darder, lancer (des coups)’. Eusebi, ritenendo che il senso fondamentale di plombar sia ‘guarnire di piombo’, adotta la traduzione “mi rinsalda” e con la sua interpretazione elimina quel gioco d’alternanza di stati d’animo che il verso sembra suggerire. Che la condizione di precarietà sentimentale del poeta non gli sia comunque sfuggita, il critico lo dimostra dichiarando che, qualora si accolga la lezione tomba, il senso diespersnon sarà più “speranza”, ma “attesa”.
Il termine plomba, torna in un’altra canzone di Arnaut Daniel, Lancan son passat li giure, ove compare anche tomba, come qui al verso 12 (cfr. nota). Anche Bertran de Born, nel sirventese Non puosc mudar mon chantar non esparga, utilizza nel medesimo componimento entrambe le parole- rima di tombaplomba. Lo stesso accade nella canzone Ara non vei puoi ni combadi Elias Cairel e nel sirventese Quar saypetit, mi met en razon largadi Guillem de Durfort. Tale componimento è particolarmente importante ai nostri fini. Guardiamo le parole-rima della seconda strofa del sirventese, ponendole in relazione con le corrispettive della prima strofa di Sim fos Amors:
 

Quar saypetit Sim fos Amors
carga
anc
embarc
tomba
nom
valer
valens
presta
larga 
franc
embarc
plomba/tomba
som
voler
Mossenz
conquesta

 
Si nota immediatamente la forte assonanza dei termini utilizzati a fine verso dai due trovatori. Inoltre, il fatto che in Guillem embarctombasi succedono, potrebbe avvalorare l’ipotesi per cui, la lezione corretta della parola-rima del verso 4 della canzone in esame sia tomba, essendo anche ivi usato embarcalla fine dell’antecedente verso 3. In Guillem de Berguedan compare invece plombar: quest’ultimo caso mi pare essere interessante, in quanto il termine è posto direttamente in rima con tombar, con cui ha un dichiarato rapporto sinonimico. Nel Levy, plombarè tradotto ‘plomber,gernir de plombplonger’. Il FEW alla voce plumbumregistra apr. abearn. plomar‘revetir de plomb’, agask. plombar‘plonger qn.’, Proveyz. plombâ‘tomber comme du plomb’; apr. aplombar  ‘se précipiter’; emplombar‘plomber’, bearn. aploumba-s‘s’enforcer’. Secondo il DEF, invece, plongerderiverebbe dal latino popolare plumbicare, a sua volta da plumbum, piombo, da cui il provenzale plombar: ‘far discendere, sprofondare in acqua una sonda piombata’. La voce tombarè invece tradotta dal Levy con ‘renverser, abbattre’. Anche per il FEW tomber / arha il significato di ‘abbattere, riversare’. Per il Bloch, il francesetomber, che ha il senso di ‘seppellire’, proverrebbe dal provenzale tombar. Si legge nel DEI che «l’italiano piombare, deriva dal franc. plomber, che deriva dal prov. plombar, che deriva dal lat. plumbus». Nel GDLI, il termine italiano piombareè definito ‘farsi di piombo’, mentre sprofondareè così spiegato: ‘precipitare rovinosamente a terra’. Sostengo dunque sia da leggersi plombain quanto, così come la sonda appesantita dal piombo sprofonda facilmente in acqua, la speranza dell’amore è in grado di far precipitare il poeta. Le etimologie proposte rinviano dunque sempre al concetto di “sprofondare”.
v. 5: Nell'ambito trobadorico “pretz” rappresenta una delle parole chiave dell'ideologia cortese: di solito è riferito alla donna amata di cui il trovatore canta il valore, o appunto il pregio. Spesso si trova accompagnato dal quantitativo “som”, a demarcare, insieme a “valors” e “joi” le qualità della donna a cui esso si riferisce. A questo concetto di pregio e di valore, si accosta facilmente un altro termine importante: “albir”, che rivela l'atteggiamento del trovatore, in molti casi descritto a "pensare" al “som pretz”, al “valor” della donna che canta, a al “joi” che ne riceve o vorrebbe riceverne. Il tema del pensiero è strettamente collegato a quello della memoria, in cui il “ricor” gioca un ruolo fondamentale nel trasferire in una sorta di dimensione mitica l'oggetto del proprio desiderio che viene puntualmente esaltato: non mancano, infatti, casi in cui termini come “albir” e “ricor” concorrano ad uno stesso significato. In questo senso “pretz” viene usato da Marcabru “Emperaire, per mi mezeis, sai, quant vostra proez'acreis, no·m sui jes tarzatz del venir” 4 “que jois vos pais, e pretz vos creis”, “L’autrier, a l’issida d’abriu” 17 “Pretz e Jovens e Jois dechai,”, “Hueymais dey esser alegrans” 13 “ni Pretz ni Valor ni Deport,”, “Pus sÕenfulleysson li verjan” 21 “que fan Pretz e Joven delir,”; da Peire Rogier “Per far esbaudir mos vezis”, 58 “que vos mi donatz joy e pretz”, da Rigaut de Berbezilh “Atressi con l'orifanz, que quant chai” 58 “belh Bericle, ioy e pretz vos mante”, da Bernart de Ventadorn “Ges de chantar no·m pren talans,” 7 “per que pretz e cortezia”,  Raimbaut d'Aurenga “Cars douz e fenhz del bederesc” 62 “Pretz e Joi. qe·l morgu'e·ill clerga,”. Di nuovo nello stesso Arnaut Daniel “Autet e bas entre·ls prims fuelhs” 46 “Pretz e Valors, vostre capduelhs”, in Arnaut de Maruoill “A gran honor viu cui jois es cobitz” 15 “bona domna, cui jois e pretz es guitz,” e “Aissi cum selh que tem qu'Amors l'aucia” 15 “qu'essenhamens e pretz e cortezia,”. Importanti sono anche le occorrenze in Peire Vidal “Quant hom es en autrui poder” 25 “Pretz e Joven vuelh mantener,” in Aimeric de Belenoi “Tant es d'amor honratz sos seignoratges” 6 “et enansiei lur pretz e lor valor,”, “Daude de Pradas in El temps que·l rossignols s'esgau” 47 “Pretz e Valors en tot cant fai,”.
Il termine “som”, invece, è più esiguo nella tradizione trobadorica e, nel nostro senso, la percentuale diminuisce ancora: Rambertino Buvalelli “Eu sai la flor plus bella d'autra flor” 25 “qu'il es de pretz al som, qui que·s n'azire,” e Guillem de Saint Gregori “Nueyt e iorn ai dos mals senhors” 50 “som pretz en comtan ez ab sos,”.
Per quanto riguarda albir, invece, i casi aumentano: tra i più significativi vanno segnalati di nuovo Rambertino Buvalello “Er quant florisson li verger” 12 “quant m'albir cum d'amor me vai,”, Pistoleta “Bona domna, un conseill vos deman” 19 “e que s'albir son pretz e sa ricor,”, Guilhem de Montanhagol “Non estarai, per ome qe·m casti” 34 “c'a mi·n creis jois, can ben pes ni m'albir,” e Peire Cardenal “Tot enaissi con fortuna de ven” 26 “tuch son d'un sen, d'un cor e d'un albir,” .
8lur grat: sinagma da intendere “con loro piacere”, presente in Guglielmo IX, Farai un vers, poi mi sonelh, 52 “eu mi despoillei per lor grat”; Amanieu de la Broquiera, Quan reverdejon li conderc, 9 “estra lur grat cre jois m’alberc”; Bernart de Rovenac, Belh m’es quan vei pels vergiers e pels pratz, 6 “e mal lur grat meto.ls en las postatz”; Bertran de Born, Qan la novella flors par el vergan, 40 “anz fant lor grat lai al comte Raimon”; Guilhem Anelier di Tolosa, Ara farai, no.m puesc tener, 17 “e qui vol de lor grat aver”; Guiraut Riquier, Creire m’an fag mey dezir, 36 “lur grat e.l befag auria”; Jaufre Rudel, Belhs m’es l’estius e.l temps floritz, 26 “qu’er an lur grat e lur prezen”; Peire Cardenal, Qui volra sirventes auzir, 63, “que.l fan far del tot a lur grat”; Peire Vidal, Ben aja ieu, 26 “q’estiers lur grat chanteraicui qe plor”; Cerveri de Girona, Un vers ay commençat, 37 “los savis, mal lor grat”.
rica conquesta: lo stilema è hapaxarnaldiano.
v. 8: Lavaud adotta la traduzione di Canello: “me feront faire d’accord une riche c.”. 
lur grat: lo stilema è presente in: Guglielmo IX, Farai un vers, pos mi sonelh, 52 “eu mi despoillei per lor grat”; Jaufre Rudel, Belhs m’es l’estius e.l temps floritz, 26 “qu’er an lur grat e lur prezen”; Bertran de Born, Qan la novella flors par el vergan, 40 “anz fant lor grat lai al comte Raimon”; Peire Vidal, Ben aja ieu, qar sai cobrir”, 26 “q’estiers lur grat chanterai cui qe plor”; Guillem Anelier de Toloza, Ara farai, no.m puesc tener, 17 “e qui vol de lor grat aver”; Bernart de Rovenac, Belh m’es quan vei pels vergiers e pels pratz, 6 “e mal lur grat meto.ls en las postatz”; Cerveri de Girona, Un vers ay commençat, 37 “los savis, mal lor grat”; Guiraut Riquier, Creire m’an fag mey dezir, 36 “lur grat e.l befag auria” e Amanieu de la Broqueira, Quan reverdejon li conderc, 9 “estra lur grat cre jois m’alberc”. L’unico caso più simile al verso arnaldiano, però, sembra essere presente in un componimento del trovatore  Peire Cardenal, Qui volra sirventes auzir, 63, “que.l fan far del tot a lur grat”.
Rica conquesta: lo stilema èhapax arnaldiano. Un’occorrenza abbastanza simile è presente in un componimento di Guillem de Durfort, Quar say petit, me met en razon larga, 24 “quant en bon luec conquier bona conquesta”, dove però, l’aggettivo ricaè sostituito dall’aggettivo bona.
9-16: Eusebi individua un rifacimento della strofa nel pometto catalanoPoder de Amor(M. Baselga y Ramirez, El Cancionero Catalano de la Universidad de Zaragoza, p.148).
9: De Riquer riporta la glossa del canzoniere H a “no m’embarga”: “non me impedit”. Secondo Lavaud embargaderiva da embargar, “embrasser”, “empecher”.
10: Per Lavaud m’estancderiva da se estancar, quindi ‘s’arreter’ (Levy: “s’arrêter, rester”). In cooccorrenza, ric loced estanccompaiono solo in questo caso nella lirica trobadorica. Ric locè usato solo da Arnaut per esprimere il fatto che si trovi in un luogo “ricco” nel quale attende la sua amata.
Molto interessante è il rimante in –anc: il termine estanccompare solo in 14 occorrenze in tutta la poesia trobadorica, 12 delle quali in rima, e tra i rimatori che fanno uso di questa rima rara ci sono Giraut de Borneil e Bertran de Born.
Il confronto con la canzone Al nuou doutz termini blancdi quest’ultimo è obbligato per via, oltre che del rimante in –anc, anche per il termine ‘blanc’ dell’incipit: ‘blanc’, infatti, nella poesia di Arnaut, è l’aggettivo che qualifica il cuore del poeta (vedi v. 42) ed è uno dei termini chiavedell’intero componimento, come scrive anche Toja nella sua edizione. Bertran inserisce quindi un termine fondamentale della canzone arnaldiana nell’incipited è una delle parole-rima comuni insieme a ‘estanc’, ‘cranc’, ‘flanc’ e ‘franc’.
Il significato di ‘estanc’, comunque, non è lo stesso che vale per Arnaut: in quest’ultimo significa “fermarsi”, mentre in Bertran significa “stancarsi”. Se in Si.m fos Amors, infatti, il poeta afferma di trovarsi in un luogo ricco ed è felice di esserci, in Al nuou doutzil rimatore è ‘stanco’: “Per qe.m pesa car estanc | q’ieu ades non pas la festa | c’us sols jorns mi sembla trenta | per una promessa genta | don mi sortz trebaills et esglais” (vv. 8-12). Come si può notare, Bertran è legato alla donna amata da una promessa, mentre Arnaut non fa cenno a un vero e proprio pegno d’amore: egli, comunque, si terrà ‘blanc’, “puro”, perché non ha la voglia e non ha il potere di liberarsi dal ferm voler(vedi versi 41-44) il suo cuore e il suo senno gli faranno fare una grande e ricca conquista (vedi versi 7-8). Il pegno d’amore ci riporta alla poesia di Giraut de Borneil, Quant la brun’aura s’eslucha, composta da sei strofe di otto versi ciascuna con una tornada, quest'ultima formata però da tre versi nella quale, ai versi 13-15, si dice: “E s’ieu auzes descubrii | Cum vos ma dona.m plevitz, | Que destrics ni mals ni dans | No.m letz que plus vosten diuga”.
Il terzo verso della canzone di Giraut, ‘Era se de ioi m'estanc’, è un chiaro riferimento al verso 10 di Arnaut, ma secondo l'edizione Sharman la traduzione di ‘estanc’ dovrebbe essere diversa: in Giraut dovrebbe significare “if I resist joy now”, quindi "resistere", mentre in Arnaut i vari editori traducono ‘estanc’ con "fermarsi". Arnaut, quindi, è “messo in un luogo ricco nel quale dimora”, mentre Giraut “resiste alla gioia”.
Arnaut e Giraut hanno infatti due visioni diverse dell'amore nelle loro canzoni: l'amore di Arnaut è fedele, e le parole della donna lo fanno sperare e lo fanno essere obbediente a lei, mentre Giraut vuole togliersi dalla testa la donna amata, come scrive ai versi 5-6: 'L' Amors qui.m fara languir | Si non la.m deslunh' oblitz'.
Inoltre c'è un altro rimante interessante che accomuna le tre canzoni: ‘cranc’. In Arnaut il cancro deve venire agli occhi dei falsi maldicenti; anche in Giraut il cancro deve colpire un occhio, ma quello di colui che pensa che egli debba finire la canzone prima di averla completata: 'Pustel'en son huelh e cranc | Qui.us me cuj'aver forsducha | Qu'enans m'en a fenir | Mon vers que sia complitz!' (vv. 44-46). In Bertran, invece, il cancro deve sempre venire agli occhi, ma a quelli di colui che avvertirà Filippo.  C.G.
11larc: viene generalmente letto dai critici come ‘pieno’, diversamente da quanto avviene nel v.1 per larga, ‘generosa’; la corrispondenza tra le forme concorrenti non risulta tuttavia meno evidente poiché il trovatore, pur dotandole di senso e referenti diversi, crea per entrambe una dipendenza da joi(in un caso è Amore ad elargirlo, nell’altro il cantore a riceverlo dalla dama). De Riquer precisa che larc, in questa sede, è da leggersi come ‘pieno, colmo’. Segnala infine che la seconda strofa è stata trascritta, tra 1436 e 1445, da Pere Torroella nel poema Clamor(P. Bach e Rita, The works of Pere Toroella, p.115).
Nella produzione trobadorica la forma larcritorna con grande frequenza, assumendo però, nella quasi totalità dei casi, il significato di ‘liberale, generoso’. L’originalità di Arnaut risiede dunque nell’aver operato un rimescolamento delle accezioni che i trovatori legavano comunemente alla forma maschile o femminile dell’aggettivo.
belh dig: coerentemente con l’importanza che il “motto cortese” aveva nell’ambito della fin’amors, si rilevano più di 400 riscontri nella tradizione occitanica. Meno frequenti sono i casi in cui lo stilema si presenta in contesti simili a quello ideato da Arnaut nel verso in esame: Berenguier Trobel, Si vols amixs al segle guazainhar, 38  “c' an tos bels ditz l'apaya e l'enebria”; Gaucelm Faidit Anc no.m parti de solatz ni de chan, 31 “qu’ab pretz honrat et ab bels ditz cortes” (e v. successivo “mi dona joi e.m promet benananssa”); Peire Vidal  Una chanso ai fata mortamen, 21 “pero.l bels ditz me torn’en alegransa”; Raimbaut d’Aurenga Peire Rotgier, a trassaillir,45 “ab bels digz n’estera gauzens”; Raimbaut de Vaqueiras Vils hom tan, 23 “c’ab sos bels digz m’aplanet e m’enois”; Berenguer de Palol  Aital dona cum ieu sai, 21 “et ab belhs digz o sap tan gen cubrir” (e v. successivo “per qu’om de lieys no.s pot claman partir”). v. 11Mi tenegraè tradotto da Lavaud con la prima persona, “je me tiendrais”, ma può anche essere interpretato in terza persona con soggetto la donna.
 
Belh dig: coerentemente con l’importanza che il “motto cortese” aveva nell’ambito della fin’amors, questo sintagma si ripresenta nella tradizione occitanica con grande frequenza. Più raramente, però, lo si incontra in contesti simili a quello arnaldiano: Gaucelm Faidit  Anc no.m parti de solatz ni de chan, 31 “qu’ab pretz honrat et ab bels ditz cortes,” (e v.32 “mi dona joi e.m promete benananssa”); Peire Vidal Una chanso ai fata mortamen, 21  “pero.l bels ditz me torn’en alegransa”; Raimbaut d’Aurenga  Peire Rotgier, a trassaillir,45 “ab bels digz n’estera gauzens”; Raimbaut de Vaqueiras  /ils hom tan, 23  “c’ab sos bels digz m’aplanet e m’enois”; Berenguer de Palol  Aital dona cum ieu sai, 21 “et ab belhs digz o sap tan gen cubrir” (e v. 22 “per qu’om de lieys no.s pot claman partir”). M.I.
v. 13: Le principali edizioni della canzone non presentano discrepanze importanti: Canello: “Qu’ieu non sui ges cel que lais aur per plom”; Toja: “q’ieu non sui ies cel que lais aur per plom” ; Perugi : “que eu no soi sel que lais aur per plom” ; Eusebi : “qu'ieu no sui ges selh que lais aur per plom”. Il poeta sostiene qui di non essere persona che lascia oro per piombo, continuando un discorso che viene portato avanti per l’intera canzone (cfr. commento ai vv. 4, 12, 36). L’oro sta qui a rappresentare l’amore per la donna, mentre il piombo è la pesantezza della condizione dell’amante se privato dell’oggetto della sua attesa e del suo desiderio: egli infatti sprofonderebbe in una desolante condizione, perfettamente espressa dal verbo plombar del verso 4. Difatti, così come in questa seconda strofa, al verso 12, tombaè sostantivo a differenza del verbo al verso 36, anche plom è ivi un nome. Notiamo poi come il poeta faccia un “discorso economico”: non è affatto conveniente, in termini economici, scambiare oro per piombo! Tali constatazioni o riferimenti all’ambito degli affari sono usuali nella poesia trobadorica. Il termine plombè presente in dodici componimenti, e quasi tutti parlano dello scambio di metalli: oro, argento e piombo. La canzone di Guillem Ademar Non pot esser sofert ni atendutrecita ai vv. 35-36: “et ai lo plom e l'estaing recrezut e per fin aur mon argen cambïat;”; torna poi per il nostro studio la canzone di Guillem de Durfort Quar say petit, mi met en razon larga (cfr. v. 4), il cui verso 37 dice: “qu'ab agut sen tria l'argent del plom”; di nuovo l’argento ed il piombo compaiono congiuntamente nella canzone di Guilhem Magret Enaissi·m pren cum fai al pescador: “afinar et ab plom argen.”(v. 50); nel sirventese Sirvens sui avutz et arlotz di Raimon d’Avignon: “plom per argen,” (v. 76); nel sirventese di Torcafol Comtor d'Apchier rebuzat: “totz vostr'argens torn'en plom” (v. 35). La cooccorrenza di aurplombla abbiamo infine al verso 11 della canzone Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori di Guillem de Saint Gregori: “d'aur plom”, e nel sirventese Del mon, volgra que son dreg nom seguisdi Cerveri in cui, al verso 29, è scritto: “e·l mons, qu'es orbs, trazis, qui·ns fa d'aur, plom”. Il tema della commutazione di metalli preziosi con il piombo (quale metafora dell’abbandono dell’amore), non è quindi un’invenzione arnaldiana, ma è un topos che percorre la lirica occitanica.
14: il verso viene tradotto dai vari commenti in molteplici modi. L’edizione Toja traduce “poiché in lei nulla conviene si raffini”, si mantiene molto vicina a questa l’edizione di Lavoud “puisq’en Elle il ne convient pas qu’on améliore rien”, Perugi preferisce “visto che alle sue qualità non posso fare nessuna tara”, De Riquer con “en ella non es necesario que nada se acrisole (= “purifichi sino ad esserne nobilitato”). Per l’etimo del provenzale esmeril REW segnala  < * lat. ex-merare (cfr. lat. MERUS (puro, genuino, schietto) > ait. smerare (ma anche smirare, Cfr. GDLI), afrz. esmerer. kat. pg. sp. esmerar.  IL FEW propone come traduzione per il lemma il tedesco moderno “reiningen” ossia “pulire”, per il corrispettivo del provenzale antico “esmerar” sono proposti come traduttori “épurer, améliorer, orner”. I significati degli esiti romanzi della forma latina si riferiscono tutti all’azione del lustrare qualcosa sino a renderla pulita, sino a eliminare ciò che la ricopriva, in modo da portarne alla luce il naturale valore. L’atto dello smerigliare rimanda a quello della purificazione che precede il riconoscimento e la successiva esaltazione del pregio della donna e richiama il lavoro fabbrile dell’artigiano che appunto batte e smeriglia il metallo per forgiarlo, un processo lungo e faticoso condotto con sapienza e fermezza fino al momento in cui la materia grezza è ricondotta alla purezza delle forme. Questa finitezza che la donna cantata già possiede è ciò verso cui muove la ricerca del trovatore ed è l’oggetto del trobare ossia il dono di cui egli vuole essere investito (Cfr. v. 16) in cambio del proprio homenaticum. In merito alla questione si tenga conto dei versi di Raimbaut D’Aurenga (in Dona, si m’auzes rancurar) Pus mos cors vas vos s’esmera, e di quelli dello stesso Arnaut (in Amors e jois e luecs e temps) che scrive: Tant es en lieis mos cors esmers, in cui è espressa la ferma convinzione che la vicinanza con l’oggetto desiderato possa trasferire su chi canta le qualità possedute da questo. La forza di questo concetto nella lirica trobadorica è confermata dalla distribuzione delle occorrenze di esmer e delle sue forme, infatti delle ben 52 occorrenze sono 40 i casi in cui la parola è posta in posizione significativa in fine di verso.  C.D.L.
v.15: Eusebi precisa che sersè da intendersi come aggettivo.
v. 16: M’envestaè riferito all’investitura d’amore, in accordo con i doveri del vassallo (fedeltà ed obbedienza); il verso rievoca la cerimonia dell’omaggio feudale, un patto nel quale due uomini, il signore e il suo vassallo, si impegnavano reciprocamente. La ritualità dell’ homenaticumè descritta da Bloch (Cfr. Marc Bloch, La società feudale) con le seguenti parole: “Ecco, l’uno di fronte all’altro, due uomini: l’uno che vuol servire, l’altro che accetta e desidera di essere capo. Il primo congiunge le mani e le pone, così unite, in quelle del secondo: chiaro simbolo di sottomissione (…) Il personaggio che offre le mani pronuncia nel medesimo tempo alcune parole molto brevi con le quali si riconosce uomo di colui che gli sta davanti. Quindi capo e subordinato si baciano sulla bocca: simbolo di accordo e di amicizia”. Prima del X secolo il rapporto di dipendenza veniva contratto solo con l’omaggio per manus, successivamente il rito fu completato con l’aggiunta del bacio che ponendo i due contraenti sullo stesso piano, attribuiva una maggiore dignità all’atto di subordinazione vassallatica. I trovatori immaginano e descrivono le dinamiche amorose attraverso le modalità del vassallaggio feudale, dalle quali è pervasa l’epoca in cui vivono. Solo in questo modo la richiesta di un’investitura amorosa suggellata col bacio, può apparire per quello che è: una promessa contratta nell’unico modo attraverso il quale, in questa epoca, era possibile pensare un accordo che potesse essere considerato legittimo e sincero al punto tale da implicare la dipendenza più intima tra due individui.
v. 17: In riferimento alla lezione us bos respeitzda lui accolta, Eusebi ribadisce che quella del trovatore è una ‘felice attesa’, molto distante dall’«intollerabile loing respeizche fai omenperir». Bos respeitz descargasono usati in cooccorrenza nello stesso verso solo da Arnaut. Descargaè un termine molto raro: comprare infatti solo in questa canzone e in Non puosc mudar mon chantar.
18Sospirsè un termine molto frequente, ma greus sospirsè usato solo, oltre che da Arnaut, da Aimeric de Belenoi in Ja mon crierai q’afanz ni cossiers. Il desiderio d’amore, dolce in sé stesso, pesa sull’anima come un fascio che grava sulle spalle e fa dolere i fianchi, e il poeta se ne libera con un pensiero di speranza. La metafora è tipicamente arnaldiana. v.18: Eusebi ritiene che la lezione “dun doutz desir” (ABDHLQUc) sia poco coerente con le sofferenze elencate nella seconda parte del verso (“don me dolon miei flanc). Secondo Lavaud è una metafora tipicamente arnaldiana: un fardello troppo pesante porta sulle spalle fatica e dolore. Il sintagma greus sospirsè usato, oltre che da Arnaut Daniel, solo da Aimeric de Belenoi in Ja mon crierai q’afanz ni cossiers.
 
vv. 17-24: De Riquer riporta le glosse del canzoniere H per i vv.: 19:  parc  (“id est parco ço es perdono”) 20: “en comba”  (“id est en valle”) 21: “que la genser par c’aia pres un tom”(“en respeit de lei”).
20: Il termine comba compare solo otto volte nella lirica trobadorica, sette delle quali in rima. Nell’opera arnaldiana, il termine compare, oltre che in questa canzone, anche in Lancan son passat li giuree il significato attribuito è sempre quello di “valle”. I rimanti in -ombaaccomunano queste due canzoni nonostante la visione dell’amore sia diversa: in Si.m fos amors, infatti, egli dichiara di trovarsi in un ‘ric loc’ nel quale le parole dell’amata lo confortano, e, come scrive ai versi 25-26, la donna ha così tanto valore che in lui il desiderio non può mai finire, mentre in Lancan son passatil poeta si trova a riflettere sul falso amore, tanto da scrivere, ai versi 15-16: ‘E puois c’a travers non poigna | e non torne sa cartat vil”. Il valore delle donne diventa viltà e chi segue Amore deve rimettersi a lui (‘Cogul tenga per colomba’, verso 34). Altra occorrenza del rimante combaè in Uc de Saint-Circ De vos me sui partitz, contrafactum di Si.m fos amors. Riportiamo di seguito la coblaper intero nell’edizione Jeanroy:
 
De vos me sui partitz; mals focs vos arga;
C’autra n’am mais que vos non miei anc,
E ges non es loinc de mi un trat d’arc
E val d’aitals una gran plena comba.
Cil lauzenzier non sabon ges son nom;
Per qe neguns no m’en pot dan tener;
E ja per vos non sarai mais soffrens,
Ans vos prezai ben d’aiqels de la festa.
 
Il termine combacompare solo otto volte nella lirica trobadorica, sette delle quali in rima. Nell’opera arnaldiana, il termine compare, oltre che in questa canzone, anche in Lancan son passat li giuree il significato attribuito è sempre quello di “valle”. I rimanti in –ombaaccomunano queste due canzoni nonostante la visione dell’amore sia diversa: in Si.m fos amors, infatti, Arnaut Daniel dichiara di trovarsi in un “ric loc” nel quale le parole dell’amata lo confortano, e, come scrive ai versi 25-26, la donna ha così tanto valore che in lui il desiderio non può mai finire, mentre in Lancan son passatil poeta si trova a riflettere sul falso amore, tanto da scrivere, ai vv. 15-16: ‘E puois c’a travers non poigna | e non torne sa cartat vil”. Il valore delle donne diventa viltà e chi segue Amore deve rimettersi a lui (‘Cogul tenga per colomba’, v. 34). L’altra occorrenza fondamentale del rimante combaè in Uc de Saint-Circ nella coblaDe vos me sui partitz, nella quale c’è un vero e proprio richiamo aSi.m fos amors.
21tom: nella produzione trobadorica è possibile rilevare cinque casi in cui questo lemma conserva il significato, letterale o metaforico, di ‘caduta, capitombolo’: Raimbaut d’Aurenga, Apres mon vers vueilh sempr’ordre, 35 “qe no ·m gic penr'un sol tom” e Er quant s’embla.l foill del fraisse, 26 “ves vos, ni pren vouta ni tom”; Torcafol, Comtor d’Apchier rebuzat, 38 “be·us menon de tom en tom”; Guilhem de Durfort, Quar say petit, mi met en razon larga, 21 “quar bos arbres vay ades a sselh tom”; Cerveri de Girona, Del mon, volgra que son dreg mon seguis, 23 “e·l mons, qu'era mons, pres bastan lag tom”. Il componimento di Guilhem de Durfort, in particolare, si presenta come contrafactumdi Si.m fos Amorsdi cui riprende molte parole-rima (mantenendo inoltre, diversamente dal sirventese di Bertran de Born, le coppie larc/largaembarc/embargatom/tombaplom/plomba), oltre a citarne alcuni luoghi tematici.
v. 23: bom aip: nella produzione occitanica questo sintagma s’incontra con grande frequenza: alcuni lo usano in riferimento a re, cavalieri o altre figure maschili, ma una schiera più nutrita di trovatori lo inserisce, come Arnaut, nel motivo delle lodi alla donna amata: Arnaut de Marueil, Si cum li peis an en l’aiga lor vida, 17 “bona dompna de totz bos aips complida”; Rigaut de Berbezilh Tuit demandon qu’es devengud’Amors, 18 “e tut bon aip i eron aiostat” e 34 “et en vos son tut bon aip asemblat” ; Pons de Capduoill, L’adregz solatz e l’avinens companha, 8 “e tug bon ayp, que.l genser es que sia”; Raimbaut de Vaqueiras Savis e fols, humils et orgoillos, 27  “mas vos, dompna, ab totz bos aips complitz”, e Si ja amors autre pro non tengues, 20 “de totz bos aibs, aten c' umilitatz” ; Peire Raimon de Tolosa Tostemps aug dir q’us ioys autre n’adutz, 57 “e toz bos aibs, totas belas faisos”; Perdigon Los mals d’Amor ai ieu ben totz apres, 29 “e tuich bon aip que dompna puesc' aver”; Aimeric de Peguilhan En Amor trob alques en que.m refraing, 25 “en lieis son tuich li bon aip c' om retrai”; Raimond Bistorz Aissi co.l fortz castel ben establitz, 15 “prez ez honors e tot bon aib prezan”; Rambertino Buvalelli Mon chantera de joy e voluntiers, 39 “totz los bos aips del mon en lieis assis” e S’a mon Restaur pogues plazer, 32 “totz los bos aips c' om pot penssar”; Peire Milon Pos l’uns auzels envas l’autre s’atura, 33 “de totz bos aibs poia, e donc peiura”. Si avvicina ulteriormente a Si.m fos Amorsil componimento di  Gaucelm Faidit Ges de cantar non aten ni esper  (22) “de totz bos aips, c' us non fail ni n' es mens”, che ne riecheggia anche il v. 24. Nell’opera arnaldiana incontriamo l’accenno ai bons aips anche in Autet e bas entre.l prims fuelhs, 44 “los bos aips don es plus auta”, L’aur’amara,70 “totz aips volgutz” , e Sols sui qui sai lo sobrafan que.m sortz, 13 “q' en un sol cors trob aissi bons aips totz”; negli ultimi due componimenti citati il trovatore allude al viso ed al corpo della dama, come faranno anche Gui d’Ussel (Ades on plus viu, mais apren, 39 “de totz bos aibs en son gen cors garnitz”) e Peire Vidal (Baron, de mon dan covit, 12 “on son tug bon aip complit”).
Arnaut de Marueil La granz beutatz e.l fis ensenhamen, 42 “e totz bos ayps vos fan aver valensa” e Aissi cum selh que tem qu’Amors l’aucia, 12 “per vos en cuy an tug bon ayp repaire”; Aimeric de Peguilhan De tot en tot es er de mi partiz, 23 “de totz bos ayps avia mais ab se”; Sordello Gran esfortz fai qui ama per amor, 9 “quan pes quo am de totz bos ayps la flor”; Bernart d’Auriac Be volria de la mellor, 29 “quar en lieys son totz bos ayps, ses contendr'e”. M.I.
Pretz e saber e sens: la coesistenza dei tre lemmi in uno stesso verso torna a realizzarsi solo nella tensotra Isabella ed Elias Cairel, N’Elyas Cairel, de l’amor, 10 “ioi e pretz e sen e saber”.
Più numerose sono le ricorrenze del terzetto “pretz e valor e sens”, tràdito da PSg: Guiraut de Salignac En atretal esperanza, 23 “vas pretz, vas valor, vas sen”; Gaucelm Faidit, Coras qe.m des benananssa, 37 “honor e pretz, valor e sen”; Rambertino Buvalelli Eu sai la flor plus bella d’autra flor, 3 “en cui es mais pretz e valors e sens”, componimento dominato dal concetto del pretz, che sembra presentare alcuni echi arnaldiani: 6 “car no.i faill res de ben c’om puosca dire”, 16 “los sieus bos aips, ni sa beutat devire”, 25 “qui l’es de pretz al som, qui que.s n’azire”. Anche la canzone di Pons de Capduoill, L’adregz solatz e l’avinens companha, oltre a contenere i lemmi in esame (6 “tant es en lieys valors e pretz e sens”), si mostra ricca di richiami a Si.m fos Amors: ritroviamo nei suoi versi il netto prevalere della donna amata sulle altre (8 “e tug bon ayp, que.l genser es que sia”),il fedele e perpetuo vassallaggio a midons(10 “Serai tostemps vas lieys francs e suffrens” e 11 “fis e leyal e celans e temens”), l’impossibilità di rinunciare al sentimento (29 “quar leu non ai poder rompa ni franha” e 30 “l’amor qu’ieu l’ai, que m’es honoris e pro”) e la maledizione dei nemici (31 “per q’ieu volga: perdes los huelhs amdos e 32 “qui.m quer mon dan ni vol que.m si’ estranha”).
Una sola volta incontriamo “joy e valors e sens” del ms. R: Elias Cairel, Abril, 36 “en cuy valors e joys e sens coversa”: come ha osservato Martín de Riquer (Los trovadoresII, p. 1147), il componimento risente dell’influenza di Arnaut, e sembra riprenderne motivi importanti, dalla sopportazione degli affanni ripagata dal valore della dama (vv.18-21), alla critica ai lausenjadors (vv 36-38), alla visione dell’amata in sogno (40 “a lieis cui blan, e quan me sui colgatz” e 41 “la vei somgnan e la tenc e mos bratz”).
Più spesso le lodi alla dama includono la coppia “pretz e sens”: Guilhem de Salignac. Per solatz e per deport, 25 “sens e pretz e cortezia”, (e 27 “estan ab lieys nueg e dia”); Monaco di Montaudon, Aissi cum selh qu’om men’al jutjamen, 46 “de lieys on es pretz e sens e beutatz”; Pons de Capduoill L’amors pensamens, 19 “honors e pretz e sens”; Arnaut de Mareuil Si cum li peis an en l’aiga lor vida, 31 “lo pretz e ·l sen e la beutat de vos”;Gui d’Ussel, Si be.m partetz, mala domina, de vos,          50 “avetz, e pretz e cortesi' e sen”; Albertet de Sisteron Bon chantar fai al gent temps de pascor, 26 “qant eu mi penz de vos lo pretz e ·l sen”; Gausbert de Puicibot, Hueimais de vos non aten, 63 “ ses par de pretz e de sen” ; Gauceran de Saint-Didier Puois fin’amors mi torna en alegrier, 42 “de ben, de sen e de pretz ufanier”,
La coppia “sen e saber”, che i trovatori usano in genere nella descrizione di figure maschili, è attestata in: Guillem de Berguedà Mais volgra chantar a blazer, 17 “bona dona, sen e saber” e Giraut Riquier Yeu cujava soven d’amor chantar, 37 “humilitat, karitat, sen, saber” (34 “ni res no.y falh, ans resplan nuech e dia”).
v.24:
es meinhs: il PL, alla voce “eser mens” riporta le accezioni «être en moins» e «manquer»: Arnaut sceglie la seconda, e crea per l’espressione in esame un contesto che ritroveremo in: Monaco di Montaudon, Aissi cum selh qu’om men’al jutjamen, 48 “res no y es menhs mas que merces no.l pren”; Guilhem de la Tor, En vos [eu] ai mesa, 8 “qe no n' es meinz res”; Gaucelm Faidit Ges de cantar non aten ni esper, 22 “de totz bos aips, c' us non fail ni n' es mens” (cfr “bom aip”); Peire Imbert, Ara pus vey que m’aonda mos sens, 20 “e ves vos fis si que res non es mens”.
ni.n resta: Arnaut Daniel sembra essere l’unico ad utilizzare il sintagma con il senso di ‘ne pas avoir lieu’ (PL, p.243), rendendolo sinonimo dell’espressione precedente; occorre però segnalare che i quattro componimenti in cui restacompare a fine verso (Raimbaut d’Aurenga Entre gel e vent e fanc, 44 “qu'eu no·us veg, per als non resta”; Bertran de BornAl nou doutz termini blanc, 44 “qu'eu sai ben qu'en lui non resta”; Guilhem de Durfort, Quar say petit, mi met en razon larga, 8 “contra mals ayps, q'us viron luy no·n resta”; Peire Cardenal Qui ve gran malesa faire, 36 “tro que deniers non lur resta” e 43 “mas tan granre mais n'i resta”), presentano altre parole-rima identiche a quelle arnaldiane: nel caso di Peire Vidal, tuttavia, la presenza dei lemmi festaentestaresta, sembra dovuta al fatto che la quinta strofa è costruita sulla rima in -esta. Più interessante il confronto con la canzone di Raimbaut d’Aurenga che, oltre ad avere otto parole-rima (festafranctestablanctancamonestaestancresta) in comune con Si.m fos Amors, ne anticiperebbe alcune espressioni: 15 “Dompn’ab cor cortes e franc”, 16 “ar m’es pujat en la testa”, 29, “Lauzengier, ren non vos tanc!”, 36 “Que – si.m sal Dieus! -”. Il sirventesdi Bertran de Born, che si rivela contrafactumdi Entre gel e vent e fanc, contiene sette della parole-rima condivise dagli altri due trovatori (con l’eccezione ditanc, lezione minoritaria di LRUc), ed ha in comune con Arnaut cranc(nell’ambito di un’analoga invettiva contro i lauzengiers: 15 “Pustell’en sos huoill e cranc”) e flanc. Per il componimento di Guilhem de Durfort, cfr. sezione dei contrafacta.
25: si noti la spaccatura che ancora una volta viene a crearsi con la vulgata stabilita da Perugi: prima di lui – eluse le varianti prettamente grafiche – gli editori leggevano e pois tan val, no.us cujetz que s’esparga, con l’apposizione di una virgola alla fine del verso successivo; Perugi edita invece e pos tan val, cuias que s’esparja[…]?, trasformando così l’affermazione in una frase interrogativa. Eusebi e De Riquer condividono la sua scelta, ma entrambi eliminano la dialefe con l’introduzione di un monosillabo (cujatz donc que…), più per congettura che per motivazioni ecdotiche. Inoltre Perugi è l’unico ad invertire l’ordine strofico fra la terza e la quarta cobla.
è da rimarcare come queste considerazioni – che, pur di carattere strettamente filologico-testuale, avrebbero dovuto influire in modo diretto anche sulla relativa esegesi del verso – risultino pressoché ignorate dai vari commentatori; persino Perugi evita di giustificare la nuova lettura, preferendo dilungarsi sul termine esparja, a suo avviso impiegato in modo traslato, e di cui sottolinea la “capacità di essere inteso tanto letteralmente quanto metaforicamente” sulla base di DCVB espargir“separer en diferents direccions; fig., aplicat a coses immaterials”. Infine dobbiamo rilevare che il rimante appare essere, prima di Si.m fos, un unicumnel repertorio lirico occitanico; ne troveremo un’altra occorrenza, non a caso, proprio nell’incipitdel contrafactumdi Bertran de Born, Non puosc mudar mon chantar non esparga.
26: Le differenze fondamentali fra i vari editori – oltre ai già citati problemi di punteggiatura – riguardano l’oggetto della frase, dai più (Canello, Lavaud, Toja, Wilhelm, De Riquer) individuato nel fermsvolers, da altri nel deziers(Perugi) o nel deziriers(Eusebi). Riteniamo importante sottolineare come la congettura di Perugi sarebbe un hapaxin provenzale, mentre sono facilmente riscontrabili numerose occorrenze sia di deziriers, sia del sintagma proposto da Canello, che se da un lato gode di un’enorme familiarità con il linguaggio danielino, dall’altro risulta essere difficilmente accettabile a causa della sua presenza – questa volta stemmaticamente indiscutibile – al v. 44 della medesima canzone. Per la traduzione del binomio seguente tutti i commentatori, in misura variabile, seguono Chabaneau: “ne croyez pas que mon amour se disperse, ni se fourche, ni se branche, c’est-à-dire se divise entre plusieurs maîtresses, à la façon d’une fourche ou d’un tronc qui se ramifie”. L’unico ad aggiungere qualcosa alla discussione è, ancora una volta, Perugi: “ora è ovvio che si tratti di una metafora ricavata dal mondo vegetale […]. Tuttavia l’evidenza che abbiamo raccolto mostra uno svuotamento semantico precoce subito dai due lemmi [i.e. forcesbranc]” che, aggiungiamo noi, sono praticamente assenti nei componimenti occitanici anteriori a Si.m fos; unica eccezione: Giraut de Bornelh Quant la brun'aura s'eslucha, 34 “que no·l rompa ni l'esbranc”. 
Eusebi considera la lezione “mos ferms voler” di ABDHL eco del v.44 e della sestina e anche De Riquer esprime preferenza per la lettura “Mos ferms volers”, sottolineando l’importanza di tale termine nella poetica arnaldiana e confortato dalla constatazione che tale variante è  generalmente ammessa dai critici.
27: Il verso significa che Arnaut, allontanandosi dalla sua donna, non apparterrà né a lei né a sé stesso perché uscirà di senno. La sola divergenza degna di nota nelle differenti edizioni riguarda il tempo verbale del verso, al presente in Perugi (que eu no soi) e Wilhelm (car ieu non sui), al futuro (no serai) altrove. E’ proprio lo studioso anglosassone ad affermare che in ogni caso “the present can assume a future meaning”. Toja sottolinea la specifica accezione di parc, che “vale part, come parcaper parta”; non bisogna però sottovalutare l’originalità del termine danielino, unicumnel repertorio lirico provenzale, di contro ad un abusatissimo part. Lavaud è il primo ad ipotizzare un cariniziale sostenendo che “le sens général de ces deux vers paraît impliquer une hypothèse plutôt qu’un fait”. Inoltre potrebbe essere significativa la compresenza di sieusmieus, non riscontrata in alcun componimento antecedente quello qui preso in esame.
28: L’allusione è allo Spirito Santo che discese sotto forma di colomba.Due lezioni si fronteggiano nel primo emistichio del verso: per cel Seignor qe.is[…] (Canello, Toja, Lavaud, Wilhelm) vs si m’aiut cel que.s[…] (Perugi, De Riquer, Eusebi). Nessun commentatore ritiene necessario spendere due righe in difesa della sua decisione; Perugi è, come al solito, l’eccezione alla regola, ma anche lui si mostra in questa circostanza piuttosto parco di parole: “La vulgata legge, manco a dirlo, come A. La lezione da noi scelta d’accordo con lo stemma è topica”. Troviamo invece una nota propriamente esegetica – nonostante l’indiscussa familiarità di un lettore occidentale con l’immagine arnaldiana – in Toja, che chiosa in questo modo per cel Seignor: “allusione allo Spirito Santo, che discese in forma di colomba e si posò al di sopra di Gesù, dopo il battesimo”.
29:verso piuttosto problematico, che offre agli editori un’ampia gamma di soluzioni ecdotiche di non rilevante interesse esegetico; è infatti completamente assente qualsiasi nota di commento. Riportiamo brevemente i differenti testi critici: qu’el mon non ha home de negun nom(Canello, Lavaud, Toja, Wilhelm); qu’el mon non es neüs de neül nom(Perugi); qu’en tot lo mon non es hom de nulh nom(De Riquer, Eusebi). Quale che sia la variante da accogliere, è bene tenere a mente che nessuna delle tre opzioni qui proposte (negun nomneul nomnulh nom) trova riscontri nella tradizione manoscritta. G.V.
30:si può qui osservare una situazione perfettamente speculare rispetto a quella del verso precedente: abbiamo tre diverse letture del testo ad opera del gruppo Canello, Lavaud, Toja, Wilhelm (tant desires gran benanansa aver); di Perugi, che delle volte si perde nelle sue cerebrali considerazioni stemmatiche (tan desire de si gran ben aver); e infine del binomio De Riquer-Eusebi, ancora una volta concordi (tan finamen dezir gran ben aver). Per ciò che concerne i richiami intertestuali, questa volta la preferenza accordata all’una o all’altra conclusione ecdotica incide notevolmente: cospicua e variegata la presenza del sintagma gran ben(due occorrenze in Peire d’Alvernhe, una a testa nei più influenti trovatori del tempo, Bernart de Ventadorn, Giraut de Bornelh, Raimbaut d’Aurenga) di contro alla totale assenza di gran benanansa, nonostante il vocabolo in sé fosse piuttosto comune. In compenso il rimante di questo verso è l’unico, all’interno della cobla, ad essere copiosamente presente praticamente ovunque: per la precisione quarantuno attestazioni in rima nei componimenti anteriori a quello di Arnaut.
31:il verso si presenta come particolarmente interessante dal punto di vista esegetico, soprattutto per ciò che concerne la traduzione del termine noncalens. Lavaud segnala la presenza di un unicumriferendosi non alle attestazioni scritte della perifrasi, ma piuttosto al significato che viene ad assumere in questa sede (“tenc a noncalens: seul exemple de cette expression […], d’ailleurs très claire, où noncalensignifie «négligeable».”); il suo intervento sembra non essere stato compreso da Wilhelm, che risponde al francese in questo modo: “non-chalens: Not unique, as Lavaud thought; cf. Peire of Auvergne, ed. Del Monte, 10.39: met en nonchaler”, riprendendo tra l’altro – senza citare – la nota del Toja, che già aveva menzionato il componimento di Peire d’Alvernhe nel commentare questo passo, aggiungendo che “tenc a noncalensequivale alla nostra espressione: tenere in non cale”. La prolungata spiegazione ecdotica di Perugi, invece, crediamo possa essere proficuamente riassunta con le parole del De Riquer: “Perugi enmienda en e seign m’en no-chalenz, que interpreta «e vivo senz’avere considerazione alcuna»”. In realtà questi filologi, e soprattutto i primi, che non possedevano repertori lirici in formato digitale, sono facilmente scusabili per aver omesso dal loro commento la menzione di Guilhem de Saint-Deidier Lo plus iraz remaing d'autres chatius, 4 “per vostra mort metrai en nonchaler”, dove il significato del verbo appare affine a quello utilizzato da Peire d’Alvernhe. 
v. 32:ancora una volta la vulgata stabilita dal Canello si interrompe con Perugi: il primo edita los enoios cui dans d’Amor es festa, il secondo los divinanz cui danz dels druz es festa. Perugi è anche l’unico a commentare il verso, sostenendo che “la probabilità di un’allitterazione (cfr. v. 26) [v. 18 nella nostra edizione] induce ad accogliere, nel secondo emistichio, il dels druztrasmesso dalla stessa famiglia di codici”. Sono giunte fino a noi quattro attestazioni di enoiosprecedenti questa, una sola di devinan(Guilhem de Saint-Deidier Per DieuAmor, en gentil luoc cortes, 46 “car asatz son saubut li devinan”) ed una di festaimpiegato come rimante (Raimbaut d’Aurenga Entre gel e vent e fanc, 9 “l'ivern, anz m'o tenc a festa”). 
 
 
DE RIQUER
 
 
41: il verso 41 dà inizio ad una strofa con la quale scendiamo in un crudo realismo, decisamente distante dalla lirica alta ed eterea delle strofe antistanti. Arnaut augura dei mali forti e corporei a coloro che, non amanti delle belle lettere e del fino amore, hanno fatto sì che cessassero di essere fatti bei doni ai trovatori. Un problema concreto della vita del poeta viene così brutalmente inserito in una delicata canzone, il cui tema è quello della gioia sempre agognata ma forse irrealizzabile, della interminabile tensione verso il raggiungimento amoroso, della castità del cuore.
Questo gruppo di versi, rivolto ai fals lausingiers, rientra in un topos della lirica trobadorica, quello cioè delle imprecazioni verso i falsi maldicenti. Lo studio della cooccorrenza difalselausingiers ha difatti rivelato l’alta presenza del sintagma nella lirica occitanica; esso è utilizzato da Gaucelm Faidit, Guiraut de Bornelh, Perdigon, Raimon de Miraval, Arnaut Catalan, Contessa de Dia, Peirol, Raimbaut de Vaqueiras, Bernart de Pradas, Bernart de Tot-lo-Mon, Daude de PradasElias de BarjolsFalquet de RomansGaucelm FaiditGavaud, Raimbaut d’Aurenga, Raimon Jordan, e compare due volte in Bertran de Born, nel sirventese Qan la novella flors par el vergane nella canzone Eu m’escondisc, dompna, que mal non mier.  Un riscontro interessante, nel quale cooccorrono le parole “maldicenti” e “lingua”, si ha in Marcabru, al verso 15 del sirventese Hueymais dey esser alegransche recita: “ist lauzengier, lenguas trencans”. In ogni caso la locuzione ha il senso di maldicenti, intesi come coloro che hanno portato alla rovina dei poeti e dell’amore. Gli avversari di Amore vengono maledetti, a volte con formule ricorrenti, in ognuno dei componimenti analizzati. Al verso 43 prosegue l’invettiva contro i lausengiersa cui viene augurato di perdere la vista per un cancro agli occhi. Il termine crancnon è del tutto usuale all’interno della lirica trobadorica. Vi sono unicamente altri due casi ove ritroviamo la parola: nel sirventese di Bertran de Born Al nou doutz termini blanc, al verso 15, che recita : “pustella en son huoill e cranc” e nella canzone Quant la brun'aura s'esluchadi Giraut di Borneilh, in cui, al verso 43, è scritto: “pustel'en son huelh e cranc”. Sembra che i tre componimenti non possano dirsi slegati l’uno dall’altro, ma sono anzi strettamente connessi, così come possiamo notare dalla cooccorrenza dei termini utilizzati. Al v. 35 si comprende la motivazione per cui il poeta impreca contro i nemici del fin’amor: essi hanno fatto sì che non venissero più regalati bei doni, quali denaro e cavalli, ai trovatori. Il Perugi legge così il verso: “que per vos son etrait caval e marc”, mentre il Toja ed il Canello leggono: “que per vos son etraich caval e marc”. Vediamo come l’unica differenza la si abbia con la scelta della variante etrait/etraich. Il Perugi sceglie la prima ipotesi in quanto meglio confortata diplomaticamente. Secondo Canello “etraitnon pare dar senso alcuno, [...] preferibile ci sembra estraich, parola tecnica delle scuderie”. Il Toja segue Canello, così giustificando la propria scelta: “è la lezione migliore, variamente trascritta nei mss.”. Nel Levy Estraire-trarè così tradotto: ‘retirer, enlever, oter; extraire, descendre, tirer son origine: v. réfl. se sèparer, se détacher, renoncer à’. Il FEW, alla voce Extrahereregistra Afr. estraire ‘faire sortir, tirer de; attirer ; traduire’, apr. ‘retirer, enlever ; extraire ; tirer son origine de ; v.r se détacher, renoncer à’, adauph. estrare ‘extraire’, lütt. estrêre ‘faire tremper les tissus teints pour en extraire l’exces de teinture soluble dans l’eau’, bourg. etraire ‘ éclore’, Barc. estraire‘épuiser le sol’, Nice estraire‘extraire’. Riguardo l’etimologia del termine Extraire, il DEFB scrive: «Rèfection, d’aprés le latin (sous l’influence d’extraction), de l’ancien françaisestraire, latin populaire extragere, latin classique extrahere, voir traire ; d’où aissi ancien provençal estraire ; verbe seulement gallo-roman». Vi è un solo altro caso di utilizzo del termine nella lirica occitanica, la canzone di Aimeric de Belenoi Ja non creirai q'afanz ni cossirersche, al verso 48, recita: “m'estrag de vos e muou ves autres treus”. Quest’unico caso è importante in quanto,anche in questa canzone, vi è il ritorno del termine lausengiers. Il verso 36 risulta come un’esplosione, la quale rivela il reale “crimine” commesso dai nemici dei poeti: essi portano alla fine del canto d’amore. Con una splendida metonimia, difatti, Arnaut sostiene che a causa dei maldicenti l’amore sta precipitando, andando in rovina. Ciò accade se i trovatori, messaggeri d’Amore, cessano di poetare.
Il Perugi legge il verso: “Amor toles c’a pauc del tot non tomba!’, il Canello ed il Toja editano invece, senza notevoli differenze: “Amor toletz c’ab pauc del tot non tomba;”. Una discordanza rilevante la si trova invece nell’edizione Eusebi del 1995, ove il verso è così letto: “qu'amor baissatz qu'a pauc del tot no tomba:”Baissartolresono quasi sinonimi, esprimono un abbassamento di rango e di livello e, dunque, sono parimenti validi. Ma nella lrica trobadorica vi è un’altissima frequenza del termine baisar, mentre solo in alcuni, rari casi, troviamo tolre, il che potrebbe suggerirci che sia il primo dei due verbi ad essere stato scelto dal poeta. In realtà, però, l’unico testo contenente le parole interessate di appartenenza di Arnaut, la canzone D’autra guiz’e d’autra razo, presenta la cooccorrenza di amortol(preiatz lieis don m’amor nos tol), il che non ci aiuta a comprendere quale tra le due parole il trovatore preferisse. Non vi sono altri casi, nella lirica trobadorica, di cooccorrenza di amor etoles, né di amor etoletz e neppure diamor ebaissatz. Per quanto riguarda il verbo tombarcfr. il commento ai versi 4 e 12, qui si ripropone un breve quadro che esplica l’etimologia del termine ed il suo significato. La voce tombarè tradotta dal Levy con ‘renverser, abbattre’. Anche per il FEW tomber / arha il significato di ‘abbattere, riversare’. Per il DEFB il francese tomber, che ha il senso di ‘seppellire’, proviene dal provenzale tombar. Notiamo come, a differenza del verso 4, ove il verbo è transitivo, esso si trova qui in forma intransitiva, mentre tomba è un sostantivo al verso 12. All’amore è riservata la medesima fine di colui che ne parla e che lo fa vivere: il poeta. Come in un triste gioco Amore, il quale portava il trovatore, poche strofe innanzi, ad un abbattimento tale da sentirsi sprofondare, è esso stesso destinato ad essere seppellito a causa dei suoi nemici. Ciò vale sia che si accetti di accogliere la lezione tombache plomba al verso 4: il senso resta difatti il medesimo.
33-40: De Riquer segnala che la quinta strofa è stata trascritta nel 1406 da Francesc de la Vía, nel Procés de la seniora de valor contra en Bernat Tutela (A. Pacheco, Francesc de la Via, vol.I).
33: Meglio-di-bene è il senhal sotto il quale si cela la donna di Arnaut, la stessa ricordata nelcongedo della strofa VII. Nell’ossevare che Arnaut dedica la sesta strofa ad una dama, il cui nome ed identità nasconde con il senhal Mielhs-de-be(come in Anc ieu non l’aic, mas elha m’a, 67 “Mielz-de-ben ren,”), de Riquer segnala che anche Bertran de Born menziona in due occasioni (Sel qui cambia bon per meillor, 11 “q’ara-us es vengutz Mieillz-de-Be” e Dompna, puois de mi no.us cal,56 “a mon Mieillz-de-ben deman”) la dama che sotto tale pseudonimo si cela e che lo stesso fa il trovatore Gaucelm Faidit (Tot so qe.is pert pels truans amadors, v.55 “Na Mieills de Ben es flors d’enseignamen”). Il critico riferisce che Stronski (La légende amoureuse de Bertran de Born, pp.97-98), che identificava la nobildonna con Guiscarda de Beaujeu, sposa di Archambaut VI (visconte di Combors tra il 1184 ed il 1238), suppose che lo pseudonimo datole da Bertran fosse stato poi ripreso dagli altri due trovatori per riferirsi alla medesima dama. Aggiunge che questo senhalfu riutilizzato, a cavallo tra XIV e XV sec., dal poeta Gilabert de Pròixida, (…amor a çells on vol tirar, 31 “e res no.lh falh haver nom Mils-que-bé”.). v. 41: Na Mielhs-de-be: l’espressione, utilizzata come pseudonimo della donna amata, probabilmente per nascondere il suo vero nome e la sua vera identità, ritorna in un altro componimento arnaldiano, Anc ieu non l’aic, mas elha m’a, 67 “Mielz-de-ben ren” e in altri due trovatori: Bertrand de Born, Sel qui cambia bon per meillor, 11 “q’ara-us es vengutz Mieillz-de-Be” e Dompna, puois de mi no.us cal, 56 “a mon Mieillz-de-ben deman” e Gaucelm Faidit, Tot so qe.is pert pels truans amadors, 55 “Na Mieills de Ben es flors d’enseignamen”. L’espressione mielhs-de-be, invece, la ritroviamo in Peire d’ Alvergne, Belhs m’es lochans per la faia, 44 “que.l mielhs-de-be s’a tolgut”; Folchetto di Marsiglia, A pauc de chantarno.m recre, 13 “car qui pot amar mielhs de be”; Aimeric de Peguilhan, Yssamen cum l’aÿmnas, 11 “de vos servir mielhs de be” e Peire Bremon Ricas Novas, Be volgra de totz chantadors, 9 “que far la degra mielhs de be”.
No.m siatz avarga: il sintagma èhapaxarnaldiano. Il sintagma no.m siatzviene usato da Arnaut anche in un altro componimento, ovviamente in un contesto del tutto diverso,Mout m’es bel el tems d’estiou, 99-100 “[…] sia et esposa / no.m siatz […]”. Arnaut, parlando in questo caso di una donna frivola e dai facili costumi, si augura, al contrario, che essa non sia mai sua sposa. Lo stesso sintagma, accompagnato da altri aggettivi, lo troviamo anche in Peire d’Alvergne, Dieus, vera vida, verays, 89 “doutz Dieus, no.m siatz esquius”; Guillem Ademar, Lanquan vei flurir l’espigua, 47 “e vos no.m siatz enigua” e Lanfranc Cigala, En chantard’aquest segle fals, 43 “que no.m siatz loindana”. De Riquer rimanda al Levys.v.  avarc ‘hostile’.
34: Il poeta amerà la donna fino alla vecchiaia, ma forse blancpuò esprimere anche la purezza dell’amore di Arnaut. 
en vostr’amor: sintagma non molto ricorrente nella lirica occitanica. Si contano in tutto quattro occorrenze: Aimeric de Belenoi, Ailas, per que viu lonjamen ni dura, 40 “en vostr’amor mas per son benestar”; Berenguier de Palazol, De la gensor qu’om vey’, al mieu semblan, 20 “tan suy intratz en vostr’amor prion”; Raimon Jordan, Vas voi solei,domna, primeiramen, 10 “en vostr’amor que ja Dieus be no.m do” e Arnaut de Maroill, Us jois d’amor s’es e mon cor enclaus, 27 “On qu’ieu m’estey, mon cor en vostr’amor”.
Tot blanc:lo stilema è presente in Guiraut de Calanso, Si tot l’aura s’es amara, 31-32 “e s’enas no.m vol, tot blanc / m’aura cum en l’ora prima”. Anche in questo caso si fa riferimento all’amore, il poeta, infatti, riprendendo il concetto arnaldiano di invecchiare rimanendo legati all’amore per una donna, nel componimento dice che amerà la sua donna e continuerà ad amarla, rimanendo puro, come in principio. Si noti che, nella lirica occitanica, molto spesso l’aggettivoblancè riferito al sostantivocor.
blanc: de Riquer menziona le traduzioni di Canello (“purissimo”) e Toja (“candido”), schierandosi però a favore dell’interpretazione di Panvini ed Eusebi, “canuto”: «nell’amore della dama il trovatore diventerà vecchio». Ricorda inoltre che Arnaut sviluppa un concetto similare in Amors et jois e luecs e temps, 38 “ben leu, can sera blancs mos sucs” e 39 “jauzirai zo per qu’er sui sers”. 
35: non ai cor ni poder que.m descarc: il sintagma torna in un altro componimento arnaldiano, Lancan vei fueill’e flor e frug, 12 “non ai poder ni cor qe.m vir aillors”, dove possiamo notare un’inversione dei sostantivi corpoder, ma il significato resta invariato. Lo stesso sintagma è presente in Uc de la Bacalaria, Ses totz enjans e ses fals’ entendensa, 5 “e non ai cor ni poder que.m n’estraya” e in Guiraur Riquier, Amors m’auci, que.m fai tant abelhir, 3 “ni ai poder ni cor qu’allor me vir”; anche in quest’ultimo componimento si può notare l’inversione cor/ poder  che, come già detto, non cambia il significato, in tutti i casi infatti si parla dell’impotenza di agire di fronte all’amore. Abbiamo poi un altro caso interessante in cui, ancora una volta, corpoder formano un binomio inscindibile, Bertran de Born, Sel qui camia bon per meillor, 3 “qu’ieu ai cor, e Dieus do.m poder”, qui il poeta dice di avere il cuore e invoca Dio affinché gli dia anche la forza. Spesso il sostantivo poder, invece che da cor, è accompagnato da altri sostantivi, per esempio: poder/volerpoder/senhoratge,poter/talen, rispettivamente in: Anonimo, Amors m’a fach novelamen asire, 31 “non ay poder ni voler che.m sostraya”; Anonimo, Bona domna, tan vos ai fin coratge, 8 “ni en lui non a poder ni senhoratge”; Pons de Capduoill, S’ieu fis ni dis nuilla saisso, 10 “que non ai poder ni talen”. Segnaliamo infine una rilevante frequenza nella lirica occitanica della formula non ai poderin riferimento all’amore.
36: Per Lavaud descarcfermdanno l’idea di un fardello pesante. Secondo Toja le lezioni accolte da Lavaud e da Canello sono giuste: l’idea della materia (vetro) è contenuta nel termine retomba, ‘ampolla di vetro’. Il verso è molto espressivo perché al fermo volere del poeta si contrappone la fragilità del vetro.retomba: lo stilema è usato come termine di paragone in contesti riferiti all’amore solo in altri due componimenti: Elias Cairel, Ara non vei puoi  ni comba, 25-26 “ qu’autresi com la retomba/franh leu, e fai mainta lesca.” e Guillem de Durfort, Quar say petit, me met en razon larga, 19-20 “e si d’amor lo ten dompna pel marc,/al gran request sia fortz cum retomba”. Nel lemma retomba, che si suole interpretare ‘fragile come una coppa di vetro’, de Riquer coglie «un’allusione non tanto alla fragilità del recipiente, che poteva non essere di vetro, ma al carattere magico o portentoso dei filtri che l’alchimista confeziona nelle sue ampolle» e segue l’interpretazione di Gabriel Oliver secondo cui Arnaut, ricordando il tema del Tristan, usa il termine per affermare che il suo amore non si deve alla magia, ma alla sua ferma volontà. Anche in questa sede riporta la glossa del canzoniere H, “angastara”, e spiega che il termine designa un recipiente d’argilla.
38: Riquer riporta alle glosse di H relative a som(“id est del cap qe es la partz qe es el som”) e leu(“id est levo”).
39: “talens” è una delle parole chiave dell’ideologia cortese: nel suo significato di “desiderio” denota una posizione salda e stabile, quella del trovatore, dalla quale non si allontana mai. Questa idea di fermezza è confermata, in alcuni casi, da termini come “ferms” o “totz” i quali, accostati a “talens”, rafforzano l’immagine suggerita del trovatore dal “ferm voler” e  dal desiderio stabile; desiderio che non tramonta la sera con il chiudere degli occhi, ma rimane fisso sull’oggetto desiderato.
Viene inoltre specificato che “talens…ara l sent en la testa”, rafforzando nuovamente quest’idea di fermezza d’animo, in perfetta armonia con l’ideologia dell’amore di lontano, un amore che risiede nella mente e che rimane sempre vivo, dispensando “joi” o “dolor” al trovatore che lo canta. Tra i tanti casi in cui questo termine compare, citiamo Bernart de Ventadorn “Anc no gardei sazo ni mes” 20 “s'amors, e·m dobla mos talens”, Arnaut de Maruoill “Franques’e noirimens  m'aduz e chausimens c'ades am ses falsura” 11 “tant es ferms mos talens”, 45 “mas ditz mos ferms talens”  27 “qu'ades [es] mos talens”. Ancora Gaucelm Faidit “Anc no cugei qu’en sa preizo” 55 “ez en leis es ferms mos talens”, Uc de Penna “Uns novels jois m'adutz conort, don sui jauzens” 24 “mos jois ni mos talens”, Elias Cairel “Totz mos cors e mos sens” 12 “quar mos talens”, e  Jaufrè de Foix “Be m'a lonc temps menat a guiza d'aura” 5 “en cuy amar es ferms totz mos talens”. 
40: Arnaut Daniel è il primo trovatore ad usare “testa” in modo nuovo. Secondo la traduzione di Eusebi, che possiamo ritenere abbastanza fedele, il trovatore mantiene fermo e vivo il desiderio della donna amata, “qu’ara.l sent en la testa”. Questo è un senso nuovo di organizzare il pensiero d’amore nella lirica occitanica: normalmente, prima e dopo Arnaut, l’amore risiede nel cuore del trovatore disgiungendolo, in qualche modo, dal pensiero che invece trova residenza nel cervello, quasi a significare che cervello e cuore abbiano due ruoli separati nell’amore o comunque un differente  grado di partecipazione all’amore. Così è per Jaufrè Rudel “Pro ai del chan essenhadors entorn mi ensenhairitz” 30 “ves l’amor qu’ins el cor m’enclau” e “Belhs m’es l’estius e.l temps floritz” 40 “totz temps n’aurai mon cor dolen”, Rigaut de Berbezilh “Pauc saup d'Amor qui merce non aten” 7 “que senz amor aver lo cor iauzen,”, Bernart de Ventadorn “Can vei la lauzeta mover” 8 “lo cor de dezirer no·m fon”. La testa, invece, ha sempre un significato fisico: Raimbaut d’Aurenga “Entre gel e vent e fanc” 16 “ar m’es pujat en la testa”, Bertrand de Born “Mal o fai domna cant d'amor s'atarja” 8 “e·l cors fresqetz e·l pel saur en la testa”, Peire Cardenal “D'Esteve de Belmon m'enueia” 34 “Esteves a la testa grossa”, tanto per fare alcuni esempi. Arnaut Daniel, invece, affida alla testa un’importanza maggiore, conferendole pari responsabilità rispetto al cuore, parlandone come luogo in cui certamente si sviluppa un pensiero forte, fisso e perennemente presente, ma anche come posto in cui s’annida il desiderio e, in quanto tale, in grado di far male quanto il cuore. Questo suo innovativo modo di pensare sembra rimanere, però, del tutto estraneo ai trovatori a lui successivi, tanto che il cuore continua ad essere l’unico o comunque il più importante organo nel coinvolgimento amoroso: non sembra esserci traccia, infatti, di un uso del termine testavicino o comunque paragonabile a quello che ne fa Arnaut. Analizzando la tornada salta subito all’occhio un dato importante: e cioè che sembrerebbero assenti termini-chiave della poetica dell’amore di lontano. Per quanto l’idea stessa di attesa e pazienza per un amore che probabilmente non avrà mai i suoi frutti sembra fornire una coordinata fondamentale nella tradizione trobadorica, i termini “atens” con il corrispettivo “atenden” non vengono utilizzati che in 14 casi in tutto, compreso lo stesso Arnaut, tra cui Bertran de Born in “En Bernartz, grans cortezia” al v.42 “ancar vos dic q'atenden”, Bertran de Ventadorn in Can l'erba fresch'e·lh folha par” al v.56 “je per mentir eu no serai atens”, Bertran Carbonel in “S'ieu anc null tems fuy ben encavalcatz” rispettivamente ai vv.59 “conseillas mi que ieu l'an atenden?” e 62 “e si l'atens, le coms n'aura 'legransa,”.
41-42: i versi hanno un crudo tono espressivo che contrasta con la liricità del verso precedente.
42: Eusebi giudica erronea, «anche se difficilior», la lezione tancdi DLRUc, reputandola un errore di penna: «*canc >tanc». Tuttavia, è possibile dare a questa lezione un significato armonico con il verso che la contiene.
43: A causa della sinonimia dei verbi tolered estraire, Eusebi giudica sospetto il termine tolez, possibile glossa di “per vos son estrag” del verso precedente; decide perciò accogliere, pur con qualche titubanza, la lezione baissatz, sulla base dell’ unica testimonianza di C. De Riquer legge in “caval e marc” un’allusione ai regali in natura o in denaro che i giullari ricevevano dai grandi signori.
45: La cobla, che si era aperta con una maledizione lanciata contro i lauzengiers, cioè gli ipocriti maldicenti, culmina in questo verso con l’espressione: “cofonda˙us Dieus! – e sai vos dire com”. Nella propria edizione Eusebi traduce il primo sintagma con “Dio vi confonda”, mentre Toja e Lavaud rispettivamente “Vi disperda Iddio!” e “Que Dieu vous anéantisse”, Perugi invece preferisce renderlo con l’espressione “Dio vi consumi”. Per il provenzale “cofondre” il REW e il FEW concordano nel fornire come base di provenienza il latino confŭndĕre, con il significato di unire e mescolare due oggetti differenti sino a confonderli (Luigi Castiglioni - Scevola Mariotti), in merito il Du Cange testimonia l’uso del termine con il senso di “pudore suffundere”, “soffondere di rossore, arrossire” e riferito a persona con quello di nascondersi cambiando d’abito. Da questa forma sarebbero derivati gli esiti romanzi: fr. Confondre, prov. Co(n)fondre, kat. Confondre asp. Cohonder. Per il significato del francese antico Confondre il REW e il Tobler – Lommatzsch forniscono come traduttore il tedesco “vernichten”, ossia “annientare, distruggere”. Per l’esito spagnolo il Corominas riporta come significato medievale del termine “echar a perder, destruir”. Per l’italiano il Gdli interpreta la forma attribuendole il significato principale di mescolare insieme più cose che andrebbero distinte, formando un tutto unico, inoltre il lemma è utilizzato anche con il senso di disorientare, turbare, nonché con l’accezione di rendere vago e nebuloso qualcosa. Questa direzione interpretativa è confortata anche dall’occorrenza del termine insieme a “guastare, e tornare a nulla” con funzione, appunto, sinonimica (in Boccaccio 8-46). Le lingue romanze hanno ereditato la forma latina, connotandone il significato originario con un senso inedito per il latino classico sia per quello più tardo, prendendo le mosse dall’accezione già classica “versare dentro, mescere” si è generato un ambito semantico che potrebbe essere definito in questi termini: “rovinare, distruggere, annientare”. Dunque il significato di “confondre” può essere inteso come indicativo di un processo che, prendendo le mosse da una “mescolanza”, una confusione di cose che dovrebbero restare distinte, ossia uno stato di disordine (di cui più avanti si offrirà un’ accurata definizione) trascina verso la progressiva rovina, la distruzione e quindi l’ annullamento dell’oggetto che la subisce. Questo stato è ciò che il poeta augura a coloro che ostacolano il percorso degli amanti. Individuati i destinatari della maledizione (i lauzengiers), stabiliti i termini della pena (confonda˙us), resta da stabilire quale sia l’oggetto che  subisce tale rovina.
In questi versi il poeta sta pronunciando una maledizione, ed in quanto tale vuole che sia la peggiore, dunque quale castigo potrebbe essere più crudele se non quello di far scontare, a chi l’amore l’ostacola, tutte quelle pene e quelle tribolazioni che esso comporta, con tutte le sue complicazioni, comprese le indesiderate intromissioni altrui? Andrea Cappellano  parlando dell’amore lo aveva descritto come una “passio”, dunque una malattia, una sofferenza, caratterizzata dalla “immoderatio” del pensiero, ossia dal tormento anche mentale oltre che fisico, una confusione del corpo e dello spirito che può precipitare il malato in uno stato di follia dove il caos stordisce l’amante fino a fargli perdere la consapevolezza di sé. Si può considerare probabile che l’obiettivo colpito dalla maledizione potesse essere la mente disordinata e scossa fino all’illusione di perdersi, è per questa ragione che Rigaut de Berbezieux può scrivere (in Tot atressi con la clartatz del dia): “Dont si˙m destrui vostr’amors ni˙m confon/ iamais no˙m voil de servir esforzar”, solo l’allontanamento può far “rin-savire”, ed è sempre per lo stesso motivo che Gaucelm Faidit può definire i termini della follia amorosa paragonandola a quella del giocatore vittima del suo stesso gioco tanto da non potersene allontanare, essendo da questo rapito fino al punto da non sentire più le più elementari necessità di sopravvivenza (fame, sete, e sonno) anche al punto di accettare di giocare ad un gioco che egli sa già essere in perdita: “cel q’al jogar se confon,/ qe jog e non pot joc aver,/e non sent fam ni set ni son-/ atressi m’es pojat  el fron/ et intrat el cor, follamen,/que, qan plus pert, mais i aten/ cobrar soven / tant ai fol sen! (in Son pogues partir son voler). La maledizione comporta una pena che chi lancia ben conosce, tanto da poter affermare con cognizione di causa: “Confonda˙us Dieus!- e sai vos dire com” ovvero “Dio vi rovini (facendovi provare la passione amorosa) – e io so dirvi come (avendola sofferta in prima persona e avendo patito a causa delle vostre maldicenze)!”. Dunque l’espressione “e sai vos dire com” non farebbe esclusivamente riferimento alle minacciate atrocità descritte nei versi precedenti (vv. 33-36), ma ad una pena ben maggiore, che effettivamente è conosciuta molto meglio da chi maledice. Alla luce di questa interpretazione si può ben immaginare a quale ignoranza alluda il verso 39, dove i lauzengiers sono definiti “desconnoissens” per influenza di una “mals astres”, la loro sfortuna è il non conoscere un sentimento che potrebbe nobilitarli e dirimerli: l’amore.  
Occorrenze confonda + dieus/deus (comprese le flessioni di entrambi i termini) 10. Perugi segnala la derivazione biblica e marcabruniana del termine (nota: 2 occorrenze in Marcabru)
Cfr. “Can vei la lauzeta mover” Bernart de Ventadorn “vas leis que˙m destrui e cofon”.
46:Eusebi traduce “perché dagli amanti vi fate maledire e disprezzare”, Toja “perché vi fate maledire e spregiar dagli amanti”, Perugi “perché da parte degli amanti vi fate maledire e tenere in spregio”, Lavoud “car vous vous  faites maudire et mepriser par les amants”.
Il verso fa riferimento al sentimento di disprezzo che gli amanti provavano verso coloro che violavano le leggi di segretezza dell’amore cortese svelando pubblicamente ciò che per ovvie ragioni gli amanti preferivano si vivesse “celadamen”.
47: Perugi traduce “è una stella maligna quella che vi tiene nell’ignoranza”, Toja “è la mala sorte che vi sostiene, misconoscenti”, Eusebi “cattiva stella è quella che vi mantiene ignoranti”, Lavaud “C’est la malechance qui vous domine, malappris”. Il corpus lirico trobadorico conta 4 occorrenze della locuzione “mal/s astres/astrucs” e ben 73 per il lemma malastruc e le sue flessioni, per un totale di 77 casi. I dizionari etimologici concordano nell’individuarne la base di provenienza nel lat. class. ASTRUM, termine che poteva significare astro o stella, ma anche destino. In un secondo momento da questa parola sarebbe derivata la forma ASTROSUS, con il significato di “malo sidere nato” (Cfr. Isidoro Etym.X,13). Dunque attorno al VI secolo, quando Isidoro registra questo significato, potrebbe essersi affermato nell’uso comune il senso negativo del termine. In base alle indicazioni del LEI tale forma si sarebbe rimodellata sul lemma del latino tardo *fatucu (da cui deriva direttamente l’occitanico “faduc”, “sot, niais”, cfr. Levy) ossia “votato alla morte” derivato probabilmente dal latino FATUUS che nella classicità veniva usato con il senso di sciocco, semplicione, ma che per un processo paraetimologico aveva confuso il proprio significato con quello di FATUM, che già nel latino classico indicava il destino avverso. Da questa convergenza lessicale e semantica si sarebbe determinata la neoformazione romanza *astrucs. L’uso corrente di far precedere al termine i prefissi dis- mal- con l’obiettivo di intensificarne il significato negativo ha fatto percepire il lemma senza prefissi come se fosse una forma neutra con il significato di “fortuna”(nota: per il significato “fortuna” è altrettanto frequente la forma con il prefisso ben-). Non a caso il Donatz Proensal(grammatica occitanica del XIII secolo) traduce astrucs =  fortunatus, desastrucs = infortunatus, malastrucs = infortunium passus.
Le dottrine gnoseologiche medievali guardavano alle stelle e alle loro costellazioni come a dei segni incisi nel cielo, dei quali si poteva dare una lettura in grado di fornire interpretazioni riguardo gli eventi umani. Nella cultura dell’uomo medievale era custodita la certezza che questi disegni stellari fossero la manifestazione di un progetto predefinito, che segnasse il destino umano sin dalla nascita, tanto nel bene quanto nel male, ed è su questi motivi che si fonda l’idea della fortuna o della sfortuna nella lirica cortese.
48: Eusebi traduce “che tanto peggiori siete quanto più vi si ammonisce”, Lavaud “car pires vous etes, plus on vous admoneste”, Perugi “voi che siete peggiori persino dei rimproveri che vi si muovono” (che però promuove a testo la lezione “que es peior que hom vos amonesta”), Toja “che peggiori siete, quanto più vi si ammonisce”. Le varie edizioni concordano nel fornire la traduzione al verso. La cobla, che si era aperta con l’accurata descrizione di una maledizione e dei suoi effetti, diretta ai maldicenti, chiude con un’amara certezza: l’impossibilità (ma forse non lo si era mai creduto realmente possibile) per un rimprovero, per quanto aspro, di lenire in qualche modo la maldicenza e maldicenti.
49: in un caso soltanto, Guillem de St. Deslier “Compaignon, ab joi mou mon chan” 37  “e fora sals mos loncs atens,” viene riportato lo stesso sintagma “lonc atens”, ma non sembra esserci una correlazione particolarmente interessante tra i due trovatori a livello di utilizzo di tali termini; sembra piuttosto una di quelle frasi fatte, in cui l’attesa, proprio perché rapportata ad un amore impossibile, risulta necessariamente sempre troppo lunga. De Riquer rileva che nella tornada di quindici delle diciassette canzoni attribuite con certezza ad Arnaut, appare il suo nome, generalmente accompagnato dall’uso della terza persona: questo rinvio costante alla figura del trovatore porta il critico a sostenere che Arnaut Daniel fu il giullare di sé stesso.
50: La canzone si chiude con la nobile vittoria che verrà dopo la lunga e paziente attesa. Eusebi indica come possibile antecedente per la lezione c’ab sufrir (fagh)di LPRSSg, Rigaut de Berbezilh, Tot atressi con la clartatz del dia (vv.25-32). Il termine “conquesta” risulta piuttosto isolato nella tradizione trobadorica. Solo in pochissimi casi, compreso Arnaut, si ritrova l’idea di conquista, in quasi tutti accompagnati dagli  aggettivi “bona”, “rica” e “richa”: Bertran de Born “Non puosc mudar mon chantar non esparga” 24 “per cui fon Poilla e Sainsogna conquesta”, Guillem Ademar “Ben agr'ops q'ieu saubes faire” 42 “de lieis c'autr'aver conquesta”, Guillem de Durfort “Quar say petit, mi met en razon larga,” 24 “quant en bon luec conquier bona conquesta”. Un elemento interessante è il fatto che “richa conquesta” compare già in Arnaut Daniel, nella stessa canzone, al verso 8, ma forse con una accezione differente. Nella prima strofa Arnaut dice di compiacersi molto di aver osato desiderare la donna amata perché il suo cuore e il suo senno gli faranno fare “splendida conquista” (traduzione di Eusebi). Nella tornada, invece, il punto di vista del trovatore sembra essersi spostato verso una condizione più stoica e ascetica: aspettando, il trovatore diviene saggio, e divenendo saggio fa “splendida conquista” ( traduzione di Eusebi). Sembra essersi attuato, nel corso della canzone, un processo di maturazione del trovatore, come se avesse raggiunto la consapevolezza di un amore che, proprio per la sua irraggiungibilità, fornisce importanti spunti di crescita intellettuale.