Revisione di Testo critico del Ven, 08/01/2021 - 11:19

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Il testo ci è stato tramandato da quattro testimoni: il Vaticano Latino 3793 (V), il Palatino 418 (P), il Laurenziano Redi 9 (L) e il Riccardiano 2533 (R). L’edizione critica è stata basata principalmente sul codice Laurenziano, dedicato per la maggior parte all’opera di Guittone d’Arezzo (lettere, sonetti, canzoni) e che, insieme al Riccardiano, rispecchiano uno stadio successivo rispetto a V e P. Il Laurenziano risulta essere il testimone più affidabile rispetto ai suoi compagni: basti dare uno sguardo alla collazione per notare come P risulti contaminato e ricco di errori in più parti, accompagnato da V. Inoltre, L è stato definito come possibile «canzoniere d’autore», poiché pone una particolare attenzione al corpus guittoniano; per questo si  pensa che possa essere stato un lavoro indicato (e seguito?) dall’autore stesso, anche per la presenza di possibili varianti.
Là dove L risultava contaminato, si è provveduto a emendare utilizzando principalmente V, con l’aiuto di R.
È difficile comporre uno stemma valido sulla quasi totale assenza di errori guida. Di sicuro interesse, tuttavia, sono il v. 36 e il suo errore di rima: tutti i testimoni riportano le varianti fiore/fore, quando ci si aspetterebbe una rima in -ato: evidentemente ci troviamo davanti a un errore di archetipo.
In base alla collazione, e alle considerazioni di Lino Leonardi, si propone il seguente stemma codicum:

 

Sebbene si riscontri visibilmente una famigliarità tra V e P, ci sono alcuni elementi che possono far pensare a un possibile dialogo tra R e P, mentre è altrettanto chiara la vicinanza di L e R.
 
I.
Tutto  ̓l dolor ch’eo mai portai fu gioia
e la gioia neente apo  ̓l dolore
del meo cor, lasso, a cui morte sochorga,
c’altro non veo ormai sia validore.
Ché pria del piacer, poco pò noia;
e poi pò forte troppo om dar tristore:
magio conven che povertà si porgha
a lo ritornator, ch’a l’entratore.
Adonqu’eo, lasso, in povertà tornato
del più riccho aquistato
che mai facesse alcun del meo paraggio.
Sofferrà Deo ch’eo più viva ad oltraggio
di tutta gente e del meo for sennato?
Non credo già, se non vol mio dannaggio.
 
II.
Ai, lasso, che mal vidi, amaro amore,
la sovra natoral vostra bellessa
e l’onorato piacenter piacere
e tutto ben ch’è ‘n voi somna grandessa;
e vidi peggio il dibonaire core
c’umiliò la vostra altera altessa
en far noi dui d’un core e d’un volere
perch’eo  ̶  più c’omo  ̶  mai portai ricchessa.
Ch’a lo riccor d’amor null’altro è pare,
ni raina pò fare
ricco re, como ni quanto omo basso,
ni vostra par raina amor è passo.
Donque ch’il meo dolor pò pareggiare?
Ché qual più perde acquista in ver me lasso.