Revisione di Commento del Lun, 11/01/2021 - 15:57

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La canzone Tutto 'l dolor ch'eo mai portai fu gioia è composta da sette stanze: le prime cinque di 14 versi (13 endecasillabi e 1 settenario) e le ultime due di 6 versi (5 endecasillabi e 1 settenario), che formerebbero la cauda. La canzone è formata da coblas singulars, ma è anche importante notare la presenza di cobals capcaudadas (IV - V) e di coblas capdenals (II - III- V).

Riportiamo qui di seguito lo schema rimico completo:
 
1 A B C B A B C B D d E E D E
2 A B C B A B C B D d E E D E
3 A B C B A B C A B b D D B D
4 A B C B A B C B D d E E D E
5 A B C B A B C B D d E E D E
6 A a B B A B
7 A a B B A B
 
A uno studio più approfondito, possiamo trovare uno schema identico in una canzone di Jacopo Mostacci, A pena pare - ch’io saccia cantare (cfr. REMCI), oltre che, in maniera simile, in un componimento del trovatore Matfré Ermengau (Drechs e natura…): a b c b a b c b d d c (cfr. Répertoire métrique, I. Frank). Lo schema rimico della canzone di Guittone manterrebbe una sua perfezione se non fosse per una ripetizione di rima in -ato (B) che dai pedes si riversa nel sirma della stanza. A tale proposito, Leonardi ha fatto notare la presenza della rima fiore (fore V R) là dove (v. 36) ci si aspetterebbe una rima in -ato, emendata per congettura da Picone in tormentato (isventurato nella Giuntina); dopo la suddetta rima (B), infatti, ci si aspetterebbe un cambio di rima (D), mentre viene ripetuta la rima in -ato, mancata appunto al v. 36.

 


I.

1 - 4
'Tutto il dolore che io ho sempre sostenuto fu gioia | e la gioia (è) niente in confronto al dolore | del mio povero cuore al quale solo la morte può venire in aiuto, | poiché ormai non riesco a vedere nient’altro che abbia (più) valore'.

L'incipit è caratterizzato dalla comune e apparentemente paradossale forma dell'amor cortese, che unisce gioia e dolore, un lessico sia euforico (gioia, piacer) che disforico (dolor, noia, tristore, povertà, oltraggio); si noti la forma chiasmica dei vv. 1 - 2: dolor, gioia e gioia, dolore. Questa commistione evidenzia subito il furor amoroso e l’impossibilità di amare l’amata, concetto ben presente nella «passio quaedam innata, procedens ex visione et immoderata cogitatione» di Andrea Cappellano [De Amore, I.I].  Gli ultimi due versi (3 - 4) spiegano e amplificano il paradosso precedente: la gioia provata, seppur ricavata da un dolore, nulla può in confronto al dolore del cuore, al quale solo la morte potrà porre eterno rimedio, dato che il poeta non vede valore in nessun altra cosa. ♦ 1. eo: freq. senza anafonesi normalmente ad Arezzo (Castellani), come Deo, meo. Da notare che V e P riportano la forma in anafonesi (io). ♦ 2. neente: ‘niente’, forma non ancora dissimilata, là dove neiente avrebbe provocato ipermetria; neiente (< ne-gente) è forma tramandata sia in antico senese che in aretino (Rohlfs); apo: 'nei confronti di' - Si intenda: la gioia non (è) niente nei confronti del dolore. ♦ 3. meo: forma più freq. in L rispetto a mio; cor: parola poetica per eccellenza, sempre senza dittongo; sochorga: tipica resa grafica <-ch-> per la resa della velare sorda, in oscillazione, ad esempio, con <c-> (cfr. v. 4). Prevalgono le scrizioni <ca>, <co>, <cu> su quelle <cha> ecc. ♦ 4. veo: ‘vedo’ (vegio in V) con sincope (cfr. anche vao, presente passim in L).

5 - 8
'Perché, prima del piacere, la noia può poco, | ma dopo [il piacere] ha potere [la noia] di dar tristezza troppo grande a un uomo: | è d’uso che la povertà si presenti maggiore | a colui che ritorna (nuovamente in quello stato), piuttosto che a chi ci entra (per la prima volta)'.

Il dolore, quindi, prevale (cfr. supra e la gioia neente apo l dolore) e il dolore stesso parrebbe essere associato al concetto di povertà: il poeta ama, ma il dolore lo fa tornare in uno stato di povertà sottraendolo all’amore, alla vera ricchezza (ciò può essere confermato dal v. 23: «Ch’a lo riccor d’amor null’altro è pare»). Da notare, anche qui, la figura chiasmica e cronologica (vv. 5 - 6): prima, poi; noia, tristoro. Sebbene forte troppo possa anche concordarsi con tristore, se rispettiamo la sequenza quantitativa sancita da poco, prima, e troppo forte, dopo, gli agg. sarebbero da ricondurre logicamente a noia. ♦ 5. pò: ‘può’, esito non dittongato (< lat. POTET), pote si oppone alla forma ditt., forse perché sentito come latinismo; noia: dal. provenz. enoja ('noia', ma anche 'tristezza'). ♦ 6. om: ‘uomo’, si può considerare un latinismo (cfr. hom in R). ♦ 7. conven: ‘conviene’, mancato ditt. Prevalenza in L di vene su viene. ♦ 8. ritornator: 'chi si viene a trovare di nuovo in un determinato stato o condizione' (TLIO, la forma è prima e unica attestazione), non sonorizzato (insieme a entrator), a differenza di V e R.

9 - 11
'Dunque  io - povero me! - sono ritornato in povertà, | dopo essere stato ricco, | come mai non fece nessuno del mio stesso lignaggio'.

Il dunque incipitale riprende il concetto precedente sul topos della povertà: il poeta, che ha già fatto esperienza ed è quindi ritornatore, torna anche in povertà. L'atto di tornare in una situazione di povertà è eccezionale ed evidenzia una condizione unica per il poeta.♦ 9. Adonqu’eo: più freq. la forma senza anafonesi. ♦ 10. piò: 'più', l’oscillazione tra giò e giù provoca quella tra piò e più PLUS, tipica del toscano antico (dove prevale piò) (Castellani, Gramm. stor., p. 290); acquistato: in senso fig. (TLIO) 'dopo essere stato'. 11. paraggio: dal prov. paratge ('nobiltà, lignaggio').

12 - 14
'Soffrirà Dio nel non vedermi più vivere in modo da violare la dignità di tutta la gente e fuori del mio senno? | Non credo, a meno che non voglia la mia dannazione'.

Il passo è di difficile interpretazione. ♦ 12. ' sofferrà: ‘soffrirà’, senza sincope vocalica, oltraggio: dal fr. ant. oltrage (DELI); più: qui prevale su piò. Cfr. v. 10. ♦ 13. for: forma freq. aretina (< FORIS, FORAS) (Castellani); sennato: senno (prov. sen) è termine per eccellenza dell'amor cortese, facente parte del Quarteron che vede Razo, Mezura, Saber, Sen. ♦ 14. vol: in tutto L, nelle forme ‘volere’ è predominante in monottongo; mio: caso di oscillazione anafonetica; dannaggio: dal prov. damnatge (DEI).

 

II.

15 - 18
'Ahi, povero me, che vidi male, amaro amore, | la vostra soprannaturale bellezza | e l’onorato gradevole piacere | e tutto il bene, che è in voi somma grandezza'.

La seconda stanza si apre con un lamento che prelude alla descrizione omaggiante l'amata: il poeta sbagliò nel vedere la bellezza e le altre qualità quasi divine dell'amata; vale a dire che non riuscì a coglierne il senso profondo, amando di un amore superficiale e grezzo, non guardato con la virtù richiesta dall’amor cortese ♦ 16. sovra natoral: topos letterario fondamentale: la bellezza della donna è sovrannaturale (lett. sopra natura), cioè sine mensura e quindi divina; natoral: o protonica (sviluppo di Ū latina  > o ); bellessa: mantiene sempre questa grafia, <-ss->, a indicare una sibilante di grado forte (vd. anche Aresso, Palasso, solasso). Fenomeno principale dei diall. tosc. occ.: perdita (per influsso sett.) dell’elemento occlusivo delle affricate /z/ (sorda e sonora), che vengono a coincidere con /s/ (sorda e sonora), si pensa nella prima metà XII sec. ♦ 17. piacenter: dal prov. plazentier, qui senza palatalizzazione del nesso t + j. ♦ 18. somna: altra parola fortemente connotante una posizione superiore, irraggiungibile; tipica grafia alternativa per somma; grandessa: vd. supra v. 15.

18 - 22
'e sbagliai ancor di più nel vedere il vostro buon cuore | cosa che abbassò il vostro superbo pregio | nel fare di noi due un cuore e un volere,| perché io - più d’ogni altro uomo - mai portai ricchezza (d'amore)'.

Presa coscienza dell’amaro amore, il poeta continua a elogiare la donna non solo dal punto di vista esteriore, ma anche da quello spirituale (vidi peggio il dibonaire core). Dall'elogio, l'accento torna sull'errore d'amore, il quale consiste nel non capire l'altezza della sua amata: egli, uomo reso povero da un amore cieco, non degno, ha contaminato il candore dell'amata, portandola al suo stesso livellonon avendo mai portato con sé la vera ricchezza d'amore, ma solo povertà. ♦ 19. dibonaire: dal fr. debonnaire, in L alternato a debonaire, ma 10: 9 GuAr; core: parola poetica per eccellenza, costantemente senza dittongo. ♦ 20. umiliò: lett. 'abbassò, profanò'; altessa: vd. supra, v. 15. Qui in allitterazione con altera, a sottolineare ancor di più lo status della donna. ♦ 21. en: ‘in’, esito non anafonetico. In L si riscontrano 120 casi ca. (contro 1100 ess. di in); ma tutti i casi di en in L appartengono ai testi di Guittone trascritti da copisti pisani. Tuttavia: en, aretinismo, che conserva la e del lat. volg. (Serianni). Notevole scrupolo del copista pisano nel rispettare questo tratto dei diall. orient.

23 - 26
'Poiché alla ricchezza d’amore nient’altro è uguale, | né una regina può rendere | ricco il re, come né quanto l’uomo umile, | né amore è manifesto a nessuna regina vostra eguale'.

Per far comprendere quanto sia ineguagliabile la ricchezza d'amore, rispetto a quella veniale, il poeta utilizza degli esempi. ♦ 23. Ch’a: es. di oscillazione grafica, per la resa della velare, tra <c-> e <ch->. ♦ 24. ni: ‘né’, è gallicismo, per la giustificazione del fr. ni < NĔC (Serianni: 280).
♦ 25. como: ‘come’, è forma della toscana orient. (alternata con come); è tuttavia propria della trad. poetica. Ciò è confermato anche dalle attestazioni laurenziane negli autori siciliani; basso: lett. 'umile' (dal lat. humus, 'suolo').

26.
. Questo verso spiega il vero valore della ricchezza, la ricchezza d'amore, e indica come la donna amata dal poeta sia l'unica, a differenza di altre donne simile livello, a conoscere l'essenza di amore.

27.
La stanza termina con due versi che tornano a esprimere il lamento del poeta: 'Dunque chi può eguagliare il mio dolore? | Perché colui che più perde, più assomiglia a me, disgraziato!'. Il focus ritorna sulla disforia della povertà e del dolore, sovrastanti anche l'amore.

28.
ver:
forma poetica apocopata.

 

III.

29.
La terza stanza, che si apre con un nuovo almento, riporta l’immagine forse più nota del poeta che arde d’amore, ossia quel fuoco che brucia e non consuma, presente in Folquet de Marselha e poi in Giacomo da Lentini. Lo stesso Guittone si chiede, paradossalmente, come egli possa vivere fuori dalla vita, o meglio vivere in questo «foc’amoruso» che brucia ma non uccide il poeta (né la salamandra di Giacomo da Lentini). Si intenda (vv. 29-31): 'Ahi, come può quell’uomo, che non ha affatto vita, | sopravvivere, grato nell’aspetto, contro il male, | così come me, - povero! - luogo d’albergo di ogni dolore? - con: ‘come’, forma alternativa; fiore: qui avv. 'per niente, affatto', anche in GiacLent e MontAnd (TLIO).

30.
contra:
sicilianismo-latinismo di larga diffusione sin dai primi secoli (Serianni); for: presenti solo forme non dittongate (< FORIS, FORAS). Aderenza del copista all’uso dialettale (pisano e fior. ant.). Da tenere presente il peso della trad. aulica.

31.
ogni:
in alternanza con onni, si afferma su ogna, forma normale di tutto il sec. XIII.

32.
fusse:
forma toscano-occidentale (ma anche centr. e merid., esclusa Firenze). Ad Arezzo, si trovano le forme in -o- (Frosini); ammassato: ‘ammazzato’, verosimilmente da massa (‘mazza’), terminazione -ezza / -ezzo / -azzo: grafia sempre <ss>, a indicare una sibilante di grado forte, da notare la rima con trapassato.