La taverna e l'officina. Il giullare e il fabbro nella poesia dei trovatori
L’antica biografia del trovatore Arnaut Daniel ci informa del fatto che egli «amparet ben letras e fetz se joglar, e pres una maniera de trobar en caras rimas, per que sa cansons no son leus ad entendre ni ad aprendre». Questo autore era quindi un esponente di quella «corrente» poetica denominata (a proposito o meno) del trobar car, cioè dello stile ricercato e prezioso. Come lui, Raimbaut d’Aurenga, che «fo bons trobaires de vers e de chansons; mas mout s’entendeit en far caras rimas e cluzas». Raimbaut d’Aurenga è, come noto, un maestro importante per Arnaut Daniel: il principio dell’utilizzazione di parole-rima (anche se con diversa permutazione interstrofica) è probabilmente ripreso dalla magnifica canzone invernale del conte d’Orange, Ar resplan la flors enversa.
L’utilizzo esclusivo dell’arte retorica aveva avuto la sua giustificazione di valore nella famosa tenzone, databile intorno al 1170, in cui Giraut de Bornelh aveva preso partito per il trobar leu e Raimbaut d’Aurenga per il trobar clus. L’argomentazione difensiva di Raimbaut d’Aurenga si fondava sulla differenza qualitativa che sussiste fra i due stili: secondo tale concezione il trobar clus sarebbe da preferire al trobar leu poiché questo rende uguali tutte le composizioni. Il trobar clus, invece, è più prezioso (plus car) e per tale ragione vale di più (v. 21). La fondazione di una maniera preziosa dello stile trobadorico, denominata trobar car o prim o ric, passa attraverso il recupero, operato essenzialmente da Raimbaut d’Aurenga (ma in buona parte anche da Peire d’Alvernhe) del sostanzioso trobar naturau marcabruniano. Questa forma preziosa deltrobar è stata considerata infatti da buona parte della critica che si è occupata dell’argomento come la sintesi, realizzatasi fra la metà e la fine del XII secolo, fra le due maniere: della prima avrebbe sussunto la nettezza dei contenuti e della seconda la ricchezza lessicale, retorica, stilistica, ricchezza che avrebbe avuto la sua manifestazione più forte ed evidente soprattutto in sede rimica [Pollmann 1965, p. 44; Mölk 1968, pp. 126-130; Gruber 1983]. Nella poetica degli autori del trobar car la forma sarebbe dichiaratamente l’espressione conveniente dellafin’amor: per tale ragione il contenuto della poesia dovrebbe, viceversa, essere facile ad intendersi[5]. Certamente tale interpretazione ha il vantaggio della chiarezza, e a poco valgono speciosi tentativi di annullarne l’interesse euristico tramite l’analisi dettagliata dei termini in questione[6]. La netta separazione fra il trobar di Marcabru, quello di Bernart de Ventadorn, quello di Raimbaut d’Aurenga e di Arnaut Daniel è palese indipendentemente dalla denominazione che alle rispettive maniere si voglia attribuire[7].
Il trobar car ha inoltre un’importante connotazione che circoscrive un aristocratico disegno di assimilazione del preziosismo all’oscurità e al «poco giorno»: lo stile prezioso è scuro come l’inverno, lo stile piano è chiaro come la bella stagione[8]. Come è stato giustamente osservato[9], è Dejosta·ls breus temps e·ls lonc sers di Peire d’Alvernhe, un componimento la cui eccellenza sul piano melodico è dichiarata nella vida del trovatore[10], che segna l’inizio del nuovo modo di comporre e gli imprime un marchio che giungerà fino alle rime petrose di Dante Alighieri, nella cui «sestina» il debito e il riconoscimento della priorità cronologica e qualitativa del componimento si farà palese con la citazione incipitaria Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra[11]: in questo senso la scelta del giorno più scuro dell’anno, quello di Santa Lucia, non è certo senza rapporto con l’intenzione di superare, quanto a preziosismo, i modelli trobadorici e italiani[12]. Dante riunisce quindi nel ciclo per la Donna Petra tutti gli elementi operanti nei testi che hanno aperto la via alla «sestina» arnaldiana, nel tentativo di dare una risposta definitiva al preziosismo trobadorico e di fissare i termini estremi, qualitativi e cronologici, del modo prezioso[13].
In effetti, c’è un’ideologia saturnina dietro il trobar car che in modo mediato potrebbe essersi riverberata, attraverso la mediazione di Raimbaut d’Aurenga, anche nell’opera di Arnaut Daniel[14]. Proprio Raimbaut, d’altro canto, in una poesia le cui coblascominciano tutte con Car, traccia una precisa corrispondenza fra il preziosismo, l’oscurità lessicale e le capacità dell’artista di limare la ruggine delle parole. Cars, douz e feinz del bederesc costituisce evidentemente una tappa importante nel rapporto di relazioni fra Marcabru, Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel e nell’operazione che porta alla completa valorizzazione della maniera preziosa: si è già parlato di Cars, douz e feinz come una possibile fonte della verga presente in Lo ferm voler[15]. Anche per tale ragione, le dichiarazioni di poetica in essa contenute andranno valutate attentamente:
Cars, brun e tenz motz entrebesc:
Pensius, pensanz, enquier e serc –
Com si liman pogues roire
L’estrain roïll ni·l fer tiure –
Don mon escur cor esclaire.
Tot cant Jois genseis esclaira
Malvestatz roïll’e tiura,
E enclau Joven en serca
Per q’Ira Joi entrebesca[16].
Il nesso fra l’oscurità del cuore del poeta e lo stile della poesia è patente, come anche la funzione centrale del fabbro che lima il ferro, come Joi rischiara il cuore arrugginito da Malvestat. Il legame fra l’intimo del poeta e l’esplicitazione del sentimento nella poesia è cioè chiaramente messo in relazione con la capacità artigiana. L’allusione a Marcabru si manifesta, a mio avviso, già nel primo verso di questa cobla, con quelCars, bruns, che non poteva non richiamare il «nome di Marcabru»[17]. Ma parodia del trovatore d’Orange va ben oltre: si è visto che la polemica marcabruniana era diretta contro i «menut trobador bergau / entrebesquill», cui evidentemente Raimbaut d’Aurenga assimila se stesso quando afferma di «entrebescar motz», e la superiorità di Marcabru era orgogliosamente dichiarata, ribadendo l’impossibilità di trovare «mot de roïll» nel suo vers. Raimbaut afferma che, suo malgrado, la ruggine non è solo nelle sue parole, ma incrosta anche il suo cuore: solo con il lavoro di lima essa può essere rimossa, sia dal vers, che dal cuore. È quindi il lavoro artigianale, l’utilizzo dell’arte retorica, che può rischiarare la poesia e depurare il sentimento inquinato da una connaturata Malvestatz. La polemica e la dichiarazione di poetica, quindi, non potrebbe essere più chiara: al moralista che si era opposto alla «falsa razo daurada» che andava prendendo sempre più il passo a quei tempi, Raimbaut risponde che la chiarezza, la limpidezza dei concetti e delle parole proviene proprio dal lavoro fabbrile, inserendosi così fra gli esponenti del «trobar a frau»: coloro che trovano ingannevolmente i difetti del comporre marcabruniano, e coloro che in proprio, fanno uso dell’arte retorica.
Gli stessi concetti, sia pur mediati e posti al servizio di un trobar solo apparentemente più leu, sono presenti in un testo molto importante per definire le radici dello stile poetico di Arnaut Daniel, En aital rimeta prima; in esso si individua sia il motivo della ruggine, che quello della lima, unitamente ad una serie di rinvii al fare artigiano e muratorio e a più motivi di ispirazione che saranno tipici dello stile di Arnaut Daniel:
En aital rimeta prima
M’agradon lieu mot e prim
Bastit ses regl’e ses linha,
Pos mos volers s’i apila;
E atozat ai mon linh 5
Lai on ai cor qe m’apil
Per totz temps, e qi·n grondilha
No tem’auzir mon grondilh
De la falsa genz de lima
E dech’e ditz (don quec lim) 10
Ez estreinh e mostr’e guinha
(So don Joi frainh e esfila),
Per q’ieu sec e pols e guinh:
Mas ieu no·m part del dreg fil,
Car mos talenz no·s roïlha, 15
Q’en Joi nos ferm ses roïlh
Qan vei rengat en la cima
Man vert-madur frug pel cim,
E qecs auzelletz relinha
Vas Amor, don chant’e qila, 20
Per cui ieu vas Joi relinh,
Don m’esfortz e chant e qil;
E·l rosinhol s’estendilha
Qe’m nafra d’amor tendilh,
Si que·l cor m’art, mas no·m rima 25
Ren de foras, mas dinz rim;
Q’Amors l’enclav’e l’escrinha
-Si! pels sans qi son part Mila!-
E·l ten pres dinz son escrinh;
Q’ades am mais per n mil 30
Midons, si tot si·m perilha
Ni·m mou trebailh ni perilh[18].
In questa canzone è sicuramente da vedere il nucleo generatore di Canso do·ill mot son plan e prim, un testo di Arnaut Daniel con una tradizione manoscritta pari a quella della «sestina», e ad essa associato in più manoscritti[19]. Il legame di Canso do·ill mot son plan e prim con En aital rimeta prima è denunciato dall’incipit, forgiato sul secondo verso, «M’agradon lieu mot e prim», ed è ribadito con la ripresa sistematica delle parole con rima in –im presenti nelle prime tre strofe della rimeta. La dichiarazione di Arnaut Daniel di voler comporre «con arte d’Amore» è accompagnata da un esplicito rinvio alla rimeta di Raimbaut d’Aurenga. Si legga il noto passo arnaldiano:
Pels bruelhs aug lo chan e·l refrim,
e per qu’om no m’en fassa crim
obri e lim
motz de valor
ab art d’Amor[20].
Anche la dittologia «ard’e rim» che troviamo in un altro luogo della canzone arnaldiana («dreitz es lacrim / e ard’e rim / sel que d’amor janguelha»[21]), richiama, oltre ad un passo dello stesso autore[22], anche l’inizio della prima strofe della rimetadi Raimbaut d’Aurenga («Si que·l cor m’art, mas no·m rima / Ren de foras, mas dinz rim»). L’ardere del cuore rappresentato mettendo in rima la parola rima non poteva sfuggire al fabbro che lima parole «con arte d’Amore». È di notevole interesse che la permutazione delle rime di Canso do·ill mot son plan e prim sia organizzata secondo un meccanismo di rotazione che sarà utilizzato anche dal Petrarca e che è affine a quello della «sestina», per la cosiddetta circolarizzazione, cioè per l’interruzione del processo permutativo prima che la permutazione sia tornata al punto di partenza[23]: sia la ricchezza della nuova maniera poetica che la qualità artigianale del componimento potevano sostanziarsi anche del gioco di permutazione rimica. Ecco quindi che la canzone che più nettamente definisce il modo poetico arnaldiano, anche nella scelta delle serie rimiche e della terminologia di dettaglio, riprende con chiarezza i moduli stilistici più tipici di Raimbaut d’Aurenga e mette in gioco una permutazione per certi versi non dissimile da quella di Lo ferm voler, testo che a sua volta vede in Ar resplan la flors enversa il modello per ciò che riguarda l’utilizzo sistematico delle parole-rima. L’arte del buon gioielliere non sta solamente nel dirozzare le pietre e nel tagliarle, ma anche nel disporle nella maniera più idonea e nel farle interagire fra loro nel modo più opportuno.
Chanso do·ill mot son plan e prim non è una canzone invernale, come quelle più importanti legate alla poetica del trobar car, è anzi una canzone che lega la propria esistenza alla gioia della stagione primaverile. Forse per tale ragione, quasi come contrappasso di un’infrazione alla norma inaugurata da Peire d’Alvernhe, Arnaut Daniel ha composto un altro testo, fortemente legato fonicamente a Chanso do·ill mot son plan e prim, ma ambientato in inverno. Si tratta di Quan chai la fuelha, la cui parentela è accertabile già al confronto delle prime strofe:
Canso do·ill mot son plan e prim Quan chai la fuelha
fas pus era botono·ill vim, dels aussors entressims
e l’ausor sim e·l freg s’erguelha
son de color don seca·l vais e·l vims
de mainhta flor, dels dous refrims
e verdeia la fuelha, vei sordezir la bruelha:
e·ill chant e·ill bralh mas ieu sui prims
sono a l’ombralh d’Amor, qui que s’en tuelha.
dels auzels per la bruelha
Apparentemente costruito su una struttura metrica molto semplice, in realtà Quan chai la fuelha è imbastito su un raffinatissimo gioco di corrispondenze vocaliche a coppie di strofe[24]: come si è visto alle strofe III e IV, in posizione assolutamente centrale rispetto alla struttura esastrofica di questa composizione, Arnaut Daniel si ricorda, oltre che del suo destino, anche del gioco che lo ossessionava[25]. Così nel componimento più direttamente legato a quello che definisce artigianalmente la poetica arnaldiana, quasi il suo pendant invernale, si affaccia la metafora del joc.
Si è detto che la maestria artigianale e il gioco sono due elementi che, tenuti a battesimo da Guglielmo IX, ritornano spesso a caratterizzare il trobar[26]: in Ab gai so cuindet e leri, la poesia che ha probabilmente generato l’epiteto di «miglior fabbro» che Dante assegna ad Arnaut Daniel, i due elementi del mester e del joc sono ancora una volta associati alla poetica o alle virtù sentimentali del trovatore. L’intero componimento è intessuto di metafore volte a esprimere il legame fondamentale fra amore e arte:
Ab guai so cuindet e leri
fas motz e capus e doli,
que seran verai e sert
quan n’aurai passat la lima,
qu’Amor marves plan’e daura 5
mon chantar que de lieis mueu
cui Pretz manten e governa.
Tot jorn melhur e esmeri
quar la gensor am e coli
del mon, so·us dic en apert: 10
sieu so del pe tro qu’al cima,
e si tot venta·ill freg’aura,
l’amor qu’ins el cor mi plueu
mi ten caut on plus iverna.
Mil messas n’aug e.n proferi 15
art lum de cer’e d’oli
que Dieu m’en don bon acert
de lieis on no·m val escrima;
e quan remir sa crin saura
cors qu’a graile e nueu 20
mais l’am que qui·m des Luzerna.
Tan l’am de cor e la queri
qu’ab trop voler cug la.m toli,
s’om ren per trop amar pert,
que.l sieu cors sobretrasima 25
lo mieu tot e no s’aisaura:
tan n’a de ver fag renueu
qu’obrador n’ai’e taverna.
No vuelh de Roma l’emperi
ni qu’om m’en fassa postoli 30
qu’en lieis non aia revert
per cui m’art lo cors e·m rima;
e si.l maltrait no·m restaura
ab un baizar anz d’annueu,
mi auci e si enferna. 35
Ges pel maltrag que·n soferi
de ben amar no·m destoli;
si tot mi ten en dezert
per lieis fas lo son e·l rima:
piegz tratz, aman, qu’om que laura, 40
qu’anc non amet plus d’un hueu
selh de Moncli Audierna.
Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura
e cas la lebre ab lo bueu
e nadi contra suberna[27].
Se nella Canso do·ill mot son plan e prim Arnaut Daniel afferma di essere un fabbro della poesia per mezzo dell’«arte d’Amore», che dà «valore» alle parole, qui la metafora viene dilatata a tutto il componimento. Il riferimento alla rimeta rambaldiana è chiaro sia nel tono generale dell’incipit («Ab gai so cuindet e leri / fas motz e capus e doli» vs «En aital rimeta prima / m’agradon lieu mot e prim / Bastit ses regl’e ses linha»[28]), sia nell’andamento metrico eptasillabico, sia nei continui riferimenti all’operare dell’artigiano. In Ab guai so la verità delle parole è direttamente legata allabor limae del poeta, la coscienza della veridicità è in rapporto con la retorica: la posizione di Arnaut è quindi opposta a quella di Marcabru, critico della «falsa razo daurada». Per Arnaut Daniel è Amore che indora le parole, è Amore che porta il poeta all’utilizzo di quegli artifici criticati dal grande moralista. L’Amore che canta Arnaut Daniel è in grado di apportare un miglioramento, un dirozzamento nell’animo come nelle parole: Amore è la causa del perfezionamento sentimentale e retorico del poeta. In Ab guai so ritorna particolarmente insistente il motivo del disinteresse del poeta nei confronti dei beni materiali e degli onori mondani[29] ed è accennato il tema della perdita per «troppo volere» (vv. 23-24), che non sarà senza relazione con la rovinosa predilezione di Arnaut per il gioco d’azzardo[30]. Il «maltraire» del poeta è comparato a quello del lavoratore (v. 40). Termini come capus, doli, escrima, aisaura, renueu,laura, bueu, o locuzioni come «qu’anc non amet plus d’un hueu», contribuiscono a dare al componimento un duplice registro stilistico, giocato nello stesso tempo sulla ricercatezza e sul livello basso del linguaggio: il lavoro, l’usura, la caccia, sono motivi che fanno da contrappunto al dichiarato disprezzo dei beni terreni a favore dell’amore per la donna. La povertà del poeta e il suo attaccamento alle cose mondane sono altrettanto visibili nel lessico utilizzato: in questo quadro ritengo sia possibile fornire una spiegazione del famoso verso 43: «Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura». Il verbo amas, in particolare, ha dato adito ad una polemica in merito al suo significato: tradotto da Canello, Lavaud, Toja, Wilhelm, Eusebi e Riquer con termini di significato analogo all’italiano «ammassare»[31], è stato invece interpretato differentemente da Perugi, che traduce ‘abbraccio’, ritenendo l’adynaton come «uno dei più classici virgilianismi tematici»[32] e da Lazzerini, che preferisce ‘colpisco’[33]. Ritengo però che il significato ritenuto in modo maggioritario dai critici sia da preferire, per la corrispondenza con un luogo di Bertran de Born legato all’opera di Arnaut Daniel:
E ja thezaur vielh no vuelh amassar,
Qu’ab thesaur jove pot pretz guazagnar[34].
Al mondano ammassare «thezaur» o «l’aur» Arnaut Daniel oppone quindi il suo «ammassar l’aura»[35]: il gioco è evidente: anche qui viene rivendicata la rinuncia alle ricchezze terrene, non l’aur, ma l’aura, non l’oro, ma l’aria. Tale interpretazione è a mio avviso importante per comprendere il gioco dell’intero componimento e può essere utile per interpretare un altro luogo cruciale (in tutti i sensi) del testo. Una poetica del disprezzo delle cose terrene, materiata di riferimenti realistici. Il lavoro del poeta allontana il poeta dai beni materiali, l’Amore per la Donna, anche se lo fa soffrire più di chi lavora la terra, è in grado di procurare un raffinamento interiore che si esplica nel chantar. Il lavoro e il profitto sono quindi intimamente legati alla poetica di Amore: non profitto terreno, ma superiore gloria costituita dalla bontà del canto. Così, gli ultimi due versi della strofe IV (vv. 27-28) sono stati interpretati nei modi più diversi dai vari editori del canzoniere danielino, ma ritengo che si possa fornire un’interpretazione soddisfacente proprio sulla base della riflessione avviata sul senso della metafore artigianali e ludiche in Arnaut Daniel. Sarà utile innanzitutto ridiscutere la questione, esponendo le lezioni concorrenti e le interpretazioni del testo fornite dai vari editori.
Il testo è tràdito da 14 mss: A B C D H I K N N2 R Sg U V a. Questa la varia lectio per i due versi[36]:
v. 27. enans nay fag un uers nou R
n’a] ABIKN2Sg ai, CDHVa nai, N a.
de ver] C dauer, DHVa deuers, IKN2 damor.
v. 28. nai] UV na N a
taverna] R caterna.
Ecco il testo e la traduzione dei differenti editori:
Canello: «Tant a de vers fait renou / C’obrador n’a e taverna». «e tanto essa ha fatto co’ miei versi da usuraja, che ora è padrona dell’officina e dello spaccio».
Lavaud: «Tant a de ver fait renou / C’obrador n’a e taverna», «Elle a en cela vraiment si bien fait l’usure qu’elle possède à la fois l’artisan et la boutique».
Toja: «tat a de ver fait renou / c’obrador n’a e taverna». «e in vero tanto ha fatto l’usuraia – che è padrona dell’operaio e dell’officina».
Perugi: «tant ai de ver fait renuo / c’obrador n’ai e taverna». «tanto ho accresciuto il mio capitale di sentimenti che posso tenerne officina e bottega».
Wilhelm: «tant a[i] de ver fait renou / c’obrador n’a[i] e taverna». «She’s made such a great new loan indeed / That she owns the craftman and the shop».
Eusebi: «tan n’a de ver fag renueu / q’obrador n’ai’e taverna». «tanto invero ha praticato su di lui l’usura da possederlo tutto».
La discordanza fra le diverse letture riguarda soprattutto due punti: 1) la scelta della variante ai vs. a e quindi del soggetto della frase: il poeta o la donna (Perugi vs. altri); 2) la scelta della variante de vers ‘versi’ (Canello vs. altri) vs. de ver ‘invero, veramente’ (Lavaud, Toja, Eusebi) o ‘di sentimenti’ (Perugi).
1) Per Eusebi ai al v. 27, presente in tutti i mss. eccetto NU, sarebbe un errore poligenetico «suggerito dal congiuntivo presente del verbo successivo»[37]. L’oggetto di «far renou» sarebbe quindi il cors del v. 25. Ciò sulla base della scelta della variante minoritaria fatta da quasi tutti gli editori. Questa la nota di Toja in proposito:
i versi sono oscuri, non tanto per il senso letterale, quanto per il legame logico col contesto. La lezione più sconcertante è quella data dalla maggioranza dei mss.: ai pera; più logica a fait renou riferita alla donna. […] Arnaut ha detto che il cuore della donna col suo amore ha sommerso il suo; ora dice che essa lo sfrutta, lo mette a usura. I due concetti concorrono a formare l’immagine di una donna dispoticamente padrona del cuore del trovatore[38].
Si noterà che l’immagine della donna come usuraia sarebbe sembrata irrispettosa anche ad un animo meno raffinato di quello di un trovatore. D’altronde mi sembra che, da un punto di vista di metodo, sia necessario ricorrere alla lezione largamente minoritaria solo nel caso in cui l’altra non fornisca un senso plausibile. Così Perugi, non senza riconoscere che «soltanto la consecuzione (n)ai…ai è quella ecdoticamente meglio garantita» tenta di interpretare la «soluzione differenziata» di V(nai…na) e fornisce in prima istanza una spiegazione che elimina questo notevole problema di delicatezza sentimentale[39]. D’altronde la lezione accolta a testo da Perugi, ai…n’ai, conforme alla stragrande maggioranza dei manoscritti, non sembra mostrare alcuna controindicazione.
2) Nel riconoscere l’oscurità dei due versi, Canello suggeriva, oltre alla soluzione accolta, di intendere vers come ‘primavere’, e offriva a contrasto un polisenso privo di riscontro, fortunatamente escluso dalla traduzione, e giustamente tenuto in non cale dagli editori seguenti[40]. Lavaud per primo stampava de ver, lezione scelta poi da tutti gli altri editori, e intendeva ‘vraiment’[41]. Perugi, riallacciandosi al Canello, suggeriva in nota la possibilità di un gioco di parole con d’aver o con vers “versi”, anche se, stampando de ver, optava per intendere ver come ‘sentimento’[42].
Importante per l’interpretazione risulta il rilievo di Perugi, che individuava la ripresa di Duran de Carpentras nel Vil sirventes leugier e venansal (attribuito da M a Peire Bremon de Ricas Novas): «E qar ieu eis afolli e desval / lo sirventes, metrai y per delir / lo mieg princep, qe nasqet al morir / de tot ver dig, per mensongier cabal; / qe d’aqo ten obrador a renieu: / don a tort ten del principat lo feu; / e s’ieu.l lauziei en mas coblas, menten, / Dieus m’o perdon, q’ab ver dit me.n desmen»[43]. Perugi, quindi, interpretava:
Arnaut ha tanto accresciuto, con la tecnica del prestito a usura, il capitale delle proprie verità amorose che ora ne possiede a sufficienza per mantenere sia l’officina che la vendita al minuto. Anche il passo di Duran de Carpetras citato sembra voglia affermare qualcosa di analogo applicato al contrario del ver, cioè alla menzogna […]. Questa, d’altra parte, sembra l’unica via che permetta di rispettare al tempo stesso la realtà manoscritta e la verosimiglianza testuale: è questione dei famosi vers da non divulgare, anzi da celare a ogni costo; Arnaut li ha accumulati proprio come un usuraio il capitale, e ne ha stipato il proprio atelier[44].
D’altronde, se sul termine renou c’è sostanziale accordo nell’interpretarlo con “usura”, conformemente del resto alla glossa del canzoniere H: «renous, dicit quia cum anuo renovatur»[45], per i due sostantivi del v. 28 l’interpretazione e la glossa è un po’ più oscillante: secondo Toja con entrambi i termini Arnaut Daniel «riprende il concetto del poeta artigiano»[46]. Eusebi affermava che «anche se il senso è chiaro e se si tratta probabilmente, come già pensava Canello, di una “frase fatta”, non è altrettanto chiaro che cosa designino qui obrador («operaio», «officina»?) e taverna». A chiarire l’interpretazione di obrador Perugi riteneva «decisiva l’ascendenza» di Ben vueill que sapchon li pluzor del coms de Peiteus, ma si noterà che qui non sono i sentimenti o le verità in rapporto con l’officina, ma il componimento (il vers)[47]. Si noterà inoltre che l’insieme degli esegeti, da Canello in poi, ha operato una «censura»: quella ditaverna[48]. Benché tutti i passi trobadorici in cui il termine si rintraccia rinviino al luogo del gioco e del bere[49], nessuno ha osato andare oltre il canelliano «spaccio». Se invece si parte dal termine proprio, il passo acquista una pregnanza e una chiarezza inaspettata. L’obrador e la taverna. Il primo è il luogo del «fare» artigiano, il secondo il luogo del tempo libero, del gioco. I due luoghi si oppongono nella vita del tempo: l’uno è il luogo del lavoro, l’altro è il ricettacolo dei nulla-facenti. Arnaut Daniel è «fabbro» ed è giocatore: l’aspetto poietico della sua poesia è non solo riconosciuto dai posteri, ma è anche più volte messo in rilievo dal trovatore. Ma l’arte arnaldiana si sostanzia anche del gioco, della taverna. Così mi sembra che la soluzione più corretta riguardo al problema della variante discussa al punto 1 sia quella conforme alla lezione di gran lunga maggioritaria nei codici: ai…n’ai, proposta a testo da Perugi. il riferimento all’usura e al gioco non può non far riferimento ad Arnaut Daniel stesso. Il secondo problema è invece più delicato: o si accetta a riscontro il luogo di Duran Sartor de Paernas e si interpreta ver come ‘verità sentimentali’ (o semplicemete ‘verità’), o si accetta quello di Guglielmo IX e allora sarà necessario tornare all’interpretazione di Canello. Se a favore di ver sta la testimonianza di cinque manoscritti contro quattro (ABSgUN vs DHRVa: la scelta non è attuabile per via stemmatica), a sostegno di vers = versi si allegherà una constatazione e un ulteriore riscontro. Se il termine renou è certamente da interpretare con ‘usura’, a mio avviso nel lettore non poteva non rinviare immediatamente al campo semantico del «rinnovare», espresso da lemmi come renovelament, renovar, renovelar. Soccorre in tal senso Ab nou cor et ab nou talen, un testo in cui l’immancabile Raimbaut d’Aurenga insiste appunto sulla «novità» del suo componimento:
Ab nou cor et ab nou talen
Ab nou saber et ab nou sen
Et ab nou bel captenemen
Vuoill un bon nou vers commensar;
E qui mos bons nous motz enten
Ben er plus nou a son viven
Qu’us vieills en deu renovellar»[50].
Il rinnovamento spirituale del poeta coincide con il rinnovamento della poesia. Mi sembra che, considerata l’importanza del trovatore di Orange nella poetica di Arnaut Daniel, questo riscontro sia tutt’altro che da sottovalutare: la lezione di R («enans n’ai fag un vers nou») va d’altronde proprio nel senso di questa interpretazione. Se si giustappone il riscontro rambaldiano con l’espressione di Guglielmo IX, anch’egli ben presente nell’opera danielina, l’ipotesi che la lezione da accogliere sia vers e non veracquista sicuramente maggiore interesse. Accogliendo la lezione vers avremmo a che fare con una nuova dichiarazione di poetica, che ben si riconnetterebbe con quanto affermato nella prima strofe e non è ininfluente a tal riguardo che in vari canzonieri la quarta strofe segua proprio quella incipitaria[51].
Alla luce di quanto detto, scioglierei il distico in questo modo: «tan ai de vers fag renueu / q’obrador n’ai e taverna». La scelta di vers d’altronde, rende possibile un’interpretazione polisemica, assolutamente plausibile: è noto infatti che in un periodo più tardo i trovatori avevano fatto derivare vers da verus, attribuendo al genere una valenza moralistica presente solo parzialmente nei primi componimenti con questo nome. Non escluderei quindi che anche in Ab gai so Arnaut Daniel abbia giocato sul doppio senso di vers, inteso come componimento, e come verità. Interpreterei quindi così: «tanto ho rinnovato (o fatto fruttare) il mio far poesia (o le mie verità), che ne ho officina e taverna». L’officina e la taverna di Arnaut Daniel sono quelle che ha ottenuto mettendo a profitto il proprio poetare e i propri sentimenti veritieri: ancora una volta, quindi, disprezzo dei beni materiali a favore dei valori poetici e sentimentali. In quest’affermazione possiamo riconoscere una chiave di tutto il poetare d’Arnaut Daniel, che, come si è visto, è faber et ludens nello stesso tempo: ilvers, il genere onnicomprensivo del primo trobadorismo, è il luogo in cui queste due qualità si manifestano e l’officina e la taverna saranno quindi i due luoghi che metaforicamente rendono la dualità del poetare[52].
Il «fare», implicito nello stesso concetto di poiesis, viene talvolta a coincidere coscientemente nell’arte dei trovatori con il «giocare», poiché il poeta non è solo creatore dal nulla, come Dio, ma ha anche il laicissimo compito di dilettare il proprio uditorio. Non è un caso che solamente la funzione «poietica» sia stata quella raccolta e còlta da Dante, che defi nendo Arnaut «miglior fabbro» si riferisce al fabbrile fare poetico evocato dalle molte peculiarità lessicali del trovatore. Il termine metaforico «fabbro» provoca l’associazione automatica della poesia con il mestiere (al quale viene anche riconosciuto implicitamente il primato nella sfera artistica): il joc, pur continuando ben oltre il primo trova tore, e pur essendo intrinseco alla cultura stessa del trobadorismo, essendone una qualità connotante almeno quanto quella delmester, non sembra es sere recepito come importante dal nostro maggior poeta, che probabilmente ne limitava la pertinenza alla sola poesia burlesca, e in ciò risulta patente l’enorme distanza che separa lo spirito del trobar da quello di altre esperienze poetiche.
[1] Ed. Boutière, Schutz & Cluzel 1973, p. 59.
[2] Cf. ivi, p. 441.
[3] Ed. Pattison 1952, p. 173: «Ara·m platz, Giraut de Borneil, / Que sapcha per c’anatz blasman / Trobar clus, ni per cal semblan. / Aiso·m digatz, / Si tan prezatz / So que es a totz comunal; / Car adonc tut seran egual». Mi sembra che abbia senz’altro ragionePaterson 1975, p. 146 quando afferma che So que es a toz comunal «probably does not mean ‘what everyone can understand’, but ‘what everyone can compose’». Cf. anche Mölk 1968, p. 116.
[4] Cf. in proposito Pollmann 1965, p. 44; Mölk 1968, pp. 126-130.
[5] Sulla levitas del contenuto contrapposta alla complicazione formale mette l’accento lo stesso Raimbaut d’Aurenga in Una chansoneta fera: «Ben la poira leu entendre / Si tot s’es en aital rima» (ed. Pattison 1952, p. 75, vv. 5-6). In altri componimenti lo stileleu è associato a quello prim: «En aital rimeta prima / M’agradon lieu motz e prim» (ed. ivi, p. 72, vv. 1-2), e alla subtilitas: «Apres mon vers vuelh sempr’ordre / Una chanson leu per bordre / En aital rima sotil» (ed. ivi, p. 78, vv. 1-3). Sulla difficoltà di riunire in un unico progetto i tre testi sopra citati, cf. Paterson 1975, p. 180, anche se ha senz’altro ragione Mölk 1968, pp. 126-130 quando individua nelle intenzioni dell’autore un’opposizione «contenuto lieve» vs «forma ordita».
[6] Cf. Paterson 1975, pp. 179-185.
[7] Cf. ivi, pp. 183-184: «Prim and sotil seem above all to suggest a texture. Trobar prim may be a compromise between clus and leu in that it combines rarity and richness of rhymes and vocabulary from the Marcabrunian tradition with the light touch and smouth polish sought in the trobar leu; but it may simply represent a search for new forms». E poi ancora, p. 184: «It may be convenient to call these experiments, and the search for new and rare forms without the clus elements of intertwined meanings and gradual unfolding of the razo, trobar ric; but it is doubtful whether the troubadour themselves ever did so. They appear not to have thought of separate, well-defined styles until some conflict arose between obviously different attitudes to style».
[8] Tale connotazione ideologica trova ad esempio una manifestazione poetica esplicita, sia pur in versione polemica, nella canzone di Lanfranc Cigala: «Escur prim chantar e sotil / Sabria far, si·m volia / Ams no·s taing c’om son chant afil / Ab tan prima maestria / Que no sia clars com dia, / Que sabers a pauc de valor / Si clardatz no·ill dona lugor, / Qu’escur saber tota via / Ten hom per mort, mas per clardat reviu, / Per qu’ieu clar d’ivern e d’estiu. / Tan tost chant d’ivern qan d’abril / Ab sol que razos i sia, / E pres mais, qui qu’en als s’apil, / Clars digz ab obra polia / Qu’escurs motz ab serran lia, / Qon cel que·l fai ab clardat agradiu; / Per qu’eu, qan chant, en chantar clar m’abriu». Sugli esordi stagionali cf. Scheludko 1936-1937; Ross 1953; Press 1962-1963; Wüffen 1963. Sull’esordio invernale cf. Guitart Utgé 1993.
[9] Cf. Paterson 1975, pp. 86-87.
[10] Cf. ed. Boutière, Schutz & Cluzel 1973, 263: «trobet ben e cantet ben. e fo lo premiers bons trobaire que fon outra mon, et aquel que fez los meillors sons de vers que anc fosson faichs e·l vers que ditz: Dejosta·ls breus jorns e·ls lonc sers».
[11] Cf. Beggiato 1976.
[12] Cf. in proposito De vulgari eloquentia riguardo ad Amor tu vedi ben
[13] Un ruolo importante, d’altronde, potrebbe averlo giocato proprio Ar resplan la flors enversa di Raimbaut d’Aurenga, che forse Dante riteneva proprio di Arnaut Daniel. A questo trovatore, infatti, la attribuiscono i manoscritti U e c, che appartengono ad una tradizione avente diramazioni in Toscana e probabilmente conosciuta da Dante: cf.Santangelo 1905, p. 58; Santangelo 1959, passim; Avalle 1961 [1993], 98 ss.
[14] Cf. Mancini 1991, p. 45: «virtuosismo, quello di Raimbaut, non solo formale, ma impegnato in un dialogo bizzarro con tutta la tradizione trobadorica, intriso di umori saturnini, di teatralità, di felicissimi movimenti parodici».
[16] Ed. Marshall 1969
[17] Su cui cf. Spaggiari 1992, pp. 3-24, in particolare p. 15 e 23.
[18] Ed. Pattison 1952, p. 72, vv. 1-32.
[20] Ed. Eusebi 1984, p. 13.
[21] Cf. ivi, p. 14.
[22] Cf. Ab guai so cuindet e leri (o En cest sonet coind’e leri) ivi, p. 71, v. 32. Su questo testo cf. oltre. Secondo Eusebi (ivi, p. 14) con «ard’e rim», «se non si è davanti ad una iterazione sinonimica […] sarà da pensare a un rimar «crepare», «fendere» (come del ceppo che si fende bruciando). La coppia rimica prim : rim si incontra anche in Aissi mou di Raimbaut d’Aurenga (ed. Pattison 1952, p. 126, vv. 25-26 e 37-38).
[23] Il meccanismo è stato chiaramente esplicato da Perugi 1989-90, pp. 203-204, cui si deve anche il riconoscimento di questo testo come fonte petrarchesca. Le affinità permutative con Lo ferm voler qu’el cor m’intra sono state rilevate da Billy 1993, p. 219 e nota 22 e p. 236.
[24] Cf. Perugi 1978, II, pp. 131-132.
[26] Per referenze artigianali in altri poeti, cf. Paterson 1975, p. 189.
[27] Ed. Eusebi 1984, pp. 68-73.
[28] La variante incipitaria concorrente a quella comunemente ammessa per il testo di Arnaut Daniel («En cest sonet cond’e leri») renderebbe i due attacchi ancora più simili.
[29] Cf. vv. 15-18, 21, 29-30.
[30] per di più versi «Tan l’am de cor e la queri / qu’ab trop voler cug la·m toli, / s’om ren per trop amar pert» hanno un’affinità tematica e fonica, oltre che con l’incipit, anche con «que pert per mal dir s’arma» (v. 3) e con «tal paor ai que·l sia trop de m’arma» (v. 12) della «sestina».
[31] I primi quattro alla 3a persona singolare, gli ultimi due alla 1a. Canello: ‘ammassa’; Lavaud: ‘amasse’; Toja: ‘raccoglie’; Wilhelm: ‘hoards’; Eusebi: ‘ammucchio’; Riquer: ‘amontono’.
[32] Cf. Perugi 1978, II, p. 347.
[33] Cf. Lazzerini 1993, pp. 157-162..
[34] Ed. Gouiran 1987, p. 536, vv. 41-44.
[35] Cf. anche Bernart Marti, ed. Beggiato 1984, p. 151, vv. 22-23: «Aquist d’aver ammassaire, / malparlïer, lenguatrenchan».
[36] Riporto le sole varianti di senso; prima della parentesi quadra c’è la lezione accettata da Eusebi. Essendo gli apparati delle edizioni correnti difformi fra loro, ho ricontrollato le lezioni su microfilm.
[37] Cf. Eusebi 1984, p. 71.
[38] Cf. Toja 1961, p. 280.
[39] Cf. Perugi 1978, II, p. 341: «tale è la somma di sentimenti che Arnaldo ha preso a prestito dal cuore della donna, e tanto elevato è il tasso d’interesse, che essa ha finito col diventare padrona di officina e bottega».
[40] Cf. Canello 1883, p. 226: «Versi oscuri, dei quali non si vede bene il collegamento logico con quanto precede. Forse essi racchiudono un doppio senso e giocano intorno ad esso; ad ogni modo in due guise si può interpretare la loro lettera: 1) ‘e tanto ha fatto l’usuraja co’ miei versi (coll’opera mia), che ormai è divenuta padrona del laboratorio e della bottega’; 2) ‘e per tante primavere ha rinnovato (l’allagamento) che ormai possiede di me laboratorio e bottega’».
[41] Cf. Lavaud 1910, p. 63.
[42] Cf. ivi.
[43] Ed. Boutière 1930, p. 81, vv. 25-32 (trad. ivi, p. 84: «Puisque j’injurie et rabaisse moi-même mon sirventés, j’y mettrai, pour le détruire, en guise de menteur parfait, le “demi-prince” qui naquit à la mort de toute parole vraie; car de cela (de mensonge) il tient boutique à usure, et c’est à tort qu’il tient le fief de la principauté. Si je l’ai loué [antérieurement], en mentant, dans mes couplets, que Dieu me le pardonne, car je me déments sincèrement». Secondo Perugi 1978, II, p. 341 l’interpretazione De tot ver dig«ci conferma che ver = ‘sentimento’ come in A[rnaut] Dan[niel] 9.47, ciò che illumina anche il glossema di IKN2».
[44] Cf. ivi, p. 342.
[45] Ed. Careri 1990, p. 470. Perugi, ivi, come si è visto si distacca leggermente da questa interpretazione: «far renou viene a significare qualcosa come ‘accumulare il capitale, fare incetta sul mercato’».
[46] Cf. Toja 1961, p. 280: «Per taverna si ricordi anche il dantesco artis ergasterium(De vulg. eloq., II, IV, 1). Il verso significa che la donna, usuraia dell’amore si è impadronita della persona e dei beni del suo debitore».
[47] Ed. Pasero 1973, p. 165, vv. 1-5: «Ben vueill que sapchon li pluzor / d’un vers, si es de bona color / qu’ieu ai trat de bon obrador / qu’ieu port d’aicel mester la flor, / et es vertatz».
[48] Solo Riquer 1994, p. 145 traduce «En verdad ella ha ejercido tanto a usura que tiene obrador y taberna de ello», glossando (nota al v. 28): «por las tabernas pululaban los prestamistas».
[49] Cf. Semrau 1910, pp. 9-10, nonché l’excursus del capitolo seguente.
[50] Ed. Pattison 1952, p. 184, vv. 1-7.
[51] Cf. il prospetto in Eusebi 1984, p. 66.
[52] È interessante che quella fabbrile e quella ludica siano considerate funzioni antropologicamente primarie, attribuibili all’Uomo prima ancora che al Poeta. La felice definizione di Huizinga di Homo ludens prende le mosse proprio dall’insufficienza dell’attribuire all’uomo solo la capacità artigianale: «Quando noi uomini non risultammo così sensati come il secolo pla cido del “culto della ragione” ci aveva creduti, si dette alla nostra specie, accanto al nome di homo sapiens, ancora quello dihomo fa ber, uomo produttore. Termine che era meno esatto del primo per ché anche più di un animale è faber. Ciò che vale per fare, vale anche per giocare: parecchi animali giocano. Tuttavia mi pare che l’homo ludens, l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così essenziale come quella del fare, e che meriti un posto accanto all’homo faber: cf. Huizinga 1938 [1946], p. 13.