1. La lirica Lonc temps ai estat cubertz presenta, sin dal primo verso, una forte intertestualità: il componimento che essa riecheggia, con un chiaro calco letterale, è la canzone di Jaufre Rudel Belhs m’es l’estius e·l temps floritz (PC 262, 1), in particolare il v. 15 della III cobla (Lonc temps ai estat en dolor). Taluni elementi ne assicurano la derivazione: primariamente, nota Corrado Bologna su suggerimento di Paolo Canettieri, una struttura frastica incipitaria del tipo «Lonc temp ai estat» rappresenta un unicum nella poesia in lingua d’oc, inoltre il participio passato cubertz sembra richiamare il cobertor al v. 37 della lirica di Jaufre, con evidente scarto semantico dal piano materico a quello astratto-simbolico.[1]
La cobla VI del componimento rudelliano, centrale nella comprensione del gioco intertestuale, recita: Mielhs mi fora jazer vestitz, | que despolhatz sotz cobertor: | e puesc vos en traire auctor | la nueit quant ieu fui assalhitz. | Totz temps n’aurai mon cor dolen, | quar aissi⸱s n’aneron rizen, | qu’enquer en sospir e⸱n pantais (vv. 36-42 ed. Chiarini 1985 p. 104): «Meglio sarebbe stato per me giacere vestito, anziché spogliato sotto le coperte: e posso trarvi a conferma la notte in cui fui assalito. Sempre ne avrò il cuore dolente, poiché se ne andarono ridendo, sì che ancora ne sospiro e ne sono turbato».
La forte allusività del passo, nonché la problematica esplicazione della cobla successiva, motivano i dissensi esegetici della critica[2]: Leo Spitzer per primo ha avanzato l’ipotesi che l’allusione del poeta facesse riferimento a un aneddoto personale, evocato al fine d’introdurre il topos trobadorico secondo il quale sarebbe meglio giacere vestiti con la propria dama, piuttosto che nudi con un’altra donna. Nello specifico, Jaufre avrebbe subito «un assaut par des cambrioleurs […]: comme les assaillants lui ont enlevé ses vêtements en se moquant de son impuissance, le troubadour semble en déduire qu’il aurait été plus sage dans cette occurrence de se coucher habillé, au lieu de vouloir avoir tous ses aises – ainsi est-il plus sage de ne pas demander tous ses aises en amour, de ne convoiter que ce “mariage blanc” que nous connaissons par le roman de Tristan».[3] Beltrami, seguendo la linea indicata da Pellegrini, propone piuttosto di leggere il v. 36 come: «Mi sarebbe meglio giacere (o restare) vestito», ed escludendo che i vv. 36-37 abbiano forma di narrazione o exemplum, ne propone una lettura in chiave sentenziosa.[4] Diversamente, Lucia Lazzerini, sulla scia di Del Monte, ritiene che il passo alluda alla pugna spiritualis del cristiano assalito dalle forze del male e temporaneamente da esse sconfitto.[5]
Illuminante l’analisi condotta ancora da Bologna, il quale ricostruisce una trama di rimandi intertestuali che da Abelardo giunge a Raimbaut d’Aurenga, passando per Jaufre Rudel. Sul più vasto sfondo del dibattito che dovette svilupparsi, nell’ambito della lirica in lingua d’oc, in merito alla natura paradossale dell’amor cortese (ci troviamo attorno alla metà degli anni venti del XII secolo), dovettero collocarsi anche talune opere di natura non specificamente poetica come l’Historia Calamitatum Mearum, autobiografia in forma epistolare scritta da Pietro Abelardo attorno al 1120-25. In essa l’autore, nel narrare le proprie sventure causategli dall’amore per Eloisa, rievoca il castigo subito nella notte per mano di tre sicari, a seguito del fatale rapimento dell’amata. La mortificazione di Abelardo in quanto essere sessuale legherà inaspettatamente i due amanti nella dimensione eternatrice del λόγος, testimonio il corposo epistolario.
È interessante osservare che l’Historia Calamitatum, pur nella sua natura essenzialmente autobiografica ed epistolare, contiene in nuce taluni temi cardine della cortesia (l’interiorizzazione della fin’amors mediante l’annichilimento della carne, la ferita e poi la malattia d’amore, la lontananza dall’oggetto amato che provoca affinamento del desiderio etc.) i quali indubbiamente favorirono la ricezione dell’opera – segnatamente nelle aree meridionali della Francia – rendendola appetibile anche al vasto pubblico, che l’accolse come una sorta di romanzo cortese.
A ben guardare la fin’amors del principe di Blaia, nei suoi caratteri peculiari e distintivi (la lontananza dall’oggetto d’amore che genera il canto, assieme alla rinuncia del sé come soggetto erotico), sembra essere il frutto di una raffinata ed elativa ricezione del tema abelardiano: la castrazione di Abelardo troverebbe il suo contrappunto poetico-metaforico nella sottrazione dell’io lirico al possesso carnale, come tragica ma necessaria evirazione dello spirito.[6]
L’interpretazione è interessante; certo l’amor de lonh, pur rinviando alla metafora cristiana della peregrinatio cistercense e dell’itinerarium mentis ad Deum, è amore profano: il fine ultimo del trovatore non è il raggiungimento di una indefinita dimensione spirituale, ma della donna, alla quale il poeta anela lungo l’intero percorso di raffinamento imposto e al contempo richiesto dalla fin’amor. Tuttavia è innegabile che l’abbondanza degli echi mistici nella poesia di Jaufre Rudel sia talmente evidente da costituire un punto di partenza per qualunque tentativo di decodificazione della stessa.[7]
Con questa precisazione, e tornando all’intreccio di voci Abelardo-Jaufre-Raimbaut rimarcato da Bologna, sembra che Raimbaut, rievocando a tratti in maniera puntuale la lirica di Jaufre, abbia inteso ridimensionare il tema della castrazione a pura finzione letteraria, assieme rispondendo parodicamente ai topoi rudelliani dell’amore di lontano e della piaga d’amore.
Così, nella paradossale fictio della sofferta mutilazione che informa il gap – ma è ancora preferibile ribadire che si tratta di un contro-gap, giacché il gioco letterario si ritorce contro l’indefinibile prima persona che dà voce al testo – Raimbaut si oppone grottescamente al citatissimo Jaufre Rudel il quale, a sua volta, costruisce il suo sistema di no-poder nel desiderio che alimenta sé stesso lontano dalla carne. Alla luce di questa ipotesi, non sarà dunque peregrino affiancare l’ambigua vicenda della cobla VI di Belhs m’es l’estius alla narrazione dell’aggressione notturna di Abelardo.
Luciano Rossi ha il merito di aver posto l’accento sul sotterraneo legame intercorrente fra Lonc temps e la versione del Lai d’Ignaure (o Lai du prisonnier)[8] del non meglio noto «Renaut», degli inizi del XIII secolo ma probabilmente nota almeno un trentennio prima, se si dà valore di testimonianze all’Ensenhamen di Arnaut Guilhem de Marsan o alla fugace ma precipua menzione di un Ignaures nel Roman de la Charrette: la persona loquens della lirica in oggetto, difatti, lamenta di aver subito la medesima sventura fisica del protagonista del lai, e sempre a causa dell’eccessiva gelosia dei mariti turbati dalle sue intemperanze amorose.[9] Tale supposizione è corroborata dal ricorrente riferimento all’aurengate elaborato da Giraut de Bornelh e Gaucelm Faidit per mezzo del senhal di Linhaura, prezioso tour de mots derivante dalla giustapposizione terminologica di linh “lignaggio” e aur “oro”.
Dunque, giocando sulla consonanza fra il suo stesso senhal e il nome di Ignaure, Raimbaut vuol forse di esso offrire un’interpretazione provocatoria e smaliziata, giacché il fedifrago e misero protagonista del lai fu evirato proprio a causa della sua incontinenza sessuale.[10]
L’analisi di Rossi prosegue instituendo un secondo - nonché duplice e duplicemente parodico - parallelismo fra la castrazione di Raimbaut e, da un lato, l’evirazione “mistica” celebrata da Eusebio-Origene, dall’altro le teorie amorose dei trovatori suoi contemporanei (in particolare di Bernart de Ventadorn), inneggianti alla pressoché esclusiva contemplazione della donna amata, assieme agli effetti sconvolgenti che essa ingenera nel poeta-amante.
Per il primo livello della parodia, il riferimento sarebbe a un celebre passaggio del Polycraticus (VIII; VI) di Giovanni di Salisbury dedicato a Origene: Raimbaut, come Origene, attraverso il rinnovamento conseguente all’evirazione, non ha più motivo di destare sospetti fra i mariti (cobla V), e anzi (e s’innesterebbe, all’altezza della cobla VIII, il motivo della satira contro in paradosso che muove la fin’amor) può finalmente appagarsi del desirier e del vezer, giacché altro non chiede.
Più lieve l’opinione di Luigi Milone, secondo cui l’attacco di Raimbaut non sarebbe satirico ma volto a «riure una mica – sense angoixa! – dels tristos enemics del sexe».[11]
Per una lettura in senso metaletterario si rimanda alle pagine dedicate al gap nel volume di Simon Gaunt Troubadours and Irony: Raimbaut si serve, non senza un certo compiaciuto distacco, della terminologia propria del trobar clus. Egli “copre” l’evento fulcro della narrazione attraverso un linguaggio studiato e fortemente equivoco, sì che all’interno di un contesto di autoparodia masochistica e grottesca i termini cubertz e clus si caricano di una valenza squisitamente ironica.[12]
3. ma besoigna: «quel che mi manca»[13]. Termine di natura cortese, d’estrema rarità. In Raimbaut esso compare ancora in Un vers farai de tal mena (PC 389, 41), che al v. 35 reca mon bezonh.[14] Si aggiunga l’attestazione del termine nella medesima forma femminile in Seigner en coms, a blasmar, di Bertran de Born (PC 80, 39) v. 14: de sidonz ni sa besoigna, nonché in Elias Cairel, Qui saubes dar tan bo conselh denan (PC 133, 11), v. 44: so don li falh a la besonha gran (ed. Jaeschke 1921, p. 165). Tra le accezioni del lemma Raynouard riporta «l’acte de la copulation»[15] e ancora il FEW «l’acte amoureux»[16]: curiosa coincidenza per una lirica composta nel segno dell’allusività e dell’anfibologia.
4. ira et esglais: sostantivi definenti lo stato di tensione dolorosa del fin aman.
Ira, termine-chiave del lirismo amoroso, è semanticamente ambiguo, data la sua ambivalenza di «collera» e «tristezza»[17], sebbene nell’ambito della poesia trobadorica sia piuttosto quest’ultima accezione ad essere adoperata con maggior frequenza.[18] Secondo Pierre Bec l’ira rappresenta «une sort de ressentiment douloureux»[19], comprendente dunque in sé colère e douleur.
Esglais, «spavento, orrore»[20] è termine specificamente occitanico (nei trovieri il corrispondente è esfroi, attestato anche per l’antico occitano e però non abbastanza valorizzato nella lirica trobadorica). La prima attestazione dell’uso combinato d’ ira ed esglai è in Cercamon, Puois nostre temps comens’a brunezir, (PC 112, 3) vv. 49-52: Cercamon diz: qi vas Amor s’irais | meravill’es com pot l’ira suffrir, | q’ira d’amor es paors et esglais | e no’n pot hom trop viure ni murir (ed. Tortoreto 1981, p. 157): «Cercamon dice: chi contro Amore si adira, è strano come possa sopportarne lo sdegno, in quanto sdegno d’amore è paura e sgomento e non se ne può troppo a lungo vivere né morire»; la medesima occorrenza in Bernart de Ventadorn, Ara no vei luzir solelh (PC 70, 7), vv. 25-27: D’aquestz mi rancur e⸱m corelh | qu’ira me fan, dol et esglai | e pesa lor del joi qu’eu ai (ed. Appel 1915, p. 38): «Per questo sento rancore e dolore, perché mi causano tristezza, dolore e paura, e a loro dispiace che io provi gaudio».
5. cavallier: la lirica di Raimbaut, come suggerisce il vocativo, è indirizzata al pubblico maschile della corte, nello specifico ai cavalieri. Si confronti il gap di Guglielmo IX, Companho, farai un vers [qu’er] covinen (PC 183, 3), al v. 22: Cavalier, datz mi cosselh d’un pessamen «Cavalieri, consigliatemi per una cosa che mi preoccupa», dove i cavalieri chiamati a consiglio, coincidenti coi companho e, in parte, con i soudadier di cui Marcabru fa menzione, sono da identificarsi nel gruppo d’uomini costituente la maisnada privata del signore feudale e principale depositario dell’ethos cortese.
6. S’ar en ai obs ni mestier: nell’interpretazione di Pattison e Riquer troviamo s’a ren, ed essi rendono il verso con: «se ho bisogno o necessità di qualcosa». Sembra più conveniente seguire l’interpretazione che ne danno Appel e Milone, dove ar (< lat. HĀ HORĀ) funge da avverbio di tempo e il pronome personale complemento en potrebbe far riferimento a ma besoigna del v.3.
8. Allusione al motivo della castrazione, grottesco equivalente del no-poder rudelliano. L’aggettivo gai, proprio della lirica trobadorica, è sovente associato (a partire da Guglielmo IX) a termini quali joi e jauzir, a indicare lo stato di piacevolezza nel quale versa il fin aman. Raimbaut ne stravolge il significato, operando un notevole abbassamento semantico mediante la perifrasi di carattere osceno.
Se, come abbiamo osservato, la cobla VI di Belhs m’es l’estius sembra richiamare la tragica notte di Abelardo, con l’aggressione e la fuga dei nemici che si allontanano rizen, Raimbaut pare volersi allacciare al momento centrale dell’episodio: eis videlicet corporis mei partibus amputatis quibus id quod plangebant commiseram (ed. Monfrin 1978 p. 101).
13 e ss. Da qui e fino all’ultima cobla Raimbaut descrive, alternando ironia e sarcasmo, le conseguenze sociali della vergoigna di cui ha già fatto menzione: l’inutilità della gelosia dei mariti, che non hanno più motivo di temere per le proprie donne (cobla III); i riprovevoli modi di fare dell’evirato protagonista della lirica (cobla IV), che rendono inutile l’angoscia di chi teme per la donna oggetto del suo amore (cobla V); infine, il disprezzo che egli suscita in chi possiede, invece, cors entier (cobla VI).[21]
Cfr. ancora Abelardo: O si tantam suspitionis causam emuli mei in me reperirent, quanta me detractione opprimerent! Nunc vero mihi divina misericordia ab hac suspitione liberato, quomodo, hujus perpetrande turpitudinis facultate ablata, suspitio remanet? (ed. Monfrin 1978, pp. 101-102): «O se i miei nemici avessero trovato in me una reale causa di sospetto, con quanta forza mi avrebbero oppresso! Ora, invero, liberato per la misericordia divina da questo sospetto, come può rimanere il medesimo sospetto, ora che sono privato del potere di compiere tali turpitudini?».
Emerge a quest’altezza la questione autoriale: a chi è ascrivibile la voce all’interno del testo? Luigi Milone ritiene che essa appartenga allo stesso Raimbaut, nella finzione di aver patito la stessa disgrazia di Abelardo. Chiaramente ci troviamo di fronte a un ieu lirico, una «dramatic person» non avente a che fare con il poeta se non per il fatto che ne è una creazione. Inoltre, considerati il carattere pervasivo e il massivo uso dell’ironia nel corpus testuale del trovatore d’Aurenga, bisogna prestare prudenza nell’accogliere come veritiera qualsiasi “persona” assunta da Raimbaut.
14. Pattison traduce: «to tell that which I lamented recently», interpretando l’avverbio temporale er come (h)er/ier (< lat. HERI); diversamente, Riquer e Milone rendono er con “ora” (< lat. EĀ HORĀ).[22]
Si noti plais: perfetto sigmatico di planher, “piangere, lamentare” < lat. PLANXI (PLANGERE).
17. Accolgo a testo l’integrazione di [i] in sede di sillaba finale, già in Pattison, ai vv. 17, 23, 24, 30 e 40, che si motiva per semplici ragioni di normalizzazione grafica e non certo metriche: la desinenza latina –ARIUM > occ. er/ier morfologicamente equivalenti.[23]
18. I testimoni presentano la lezione moutz, mantenuta da Pattison e Riquer (che traducono, rispettivamente: «many give me black looks» e «muchos me ponen negro semblante», dando a moutz la funzione sintattica di soggetto plurale) e corretta in mout da Appel. Come nota Milone, la forma sigmatica non può rappresentare un soggetto plurale (< lat. MULTI); sembra dunque preferibile interpretarla come avverbio di quantità.
19. Appel congettura, a motivo del forte scarto intercorrente fra il v. 19 e i successivi, il perfetto fitz in luogo del presente fatz, che più opacamente segnalerebbe il mutamento di condizione dell’evirato “protagonista”.[24] Pattison, seguito da Riquer e Milone, preferisce mantenere la lezione al presente tradita dai manoscritti, la quale non esibisce particolari problemi a livello esegetico e anzi è motivata dalla presenza di un costrutto similare nella lirica Amors, cum er? Que faray? (PC 389, 8), vv. 50-51: E s’ieu en fauc semblan guay | ni⸱m depenh cueynhdes e vas (ed. Pattison 1952, p. 132) : «E se ne faccio gaio sembiante, e mi dipingo grazioso e volubile…».
coindes e degertz: «grazioso e affettato». L’aggettivo coinde < lat. COGNITUS[25] ha assunto il suo significato “cortese” presso i trovatori, per poi diffondersi nel nord della Francia nella medesima accezione di «grazioso, amabile, gaio», a indicare la modalità in cui un membro della società deve presentarsi all’interno della corte.[26] Degertz è parola sconosciuta, che Pattison propone di interpretare come sinonimo di coinde, sulla base di un’unica simile occorrenza, notata dall’Appel, in Peire Vidal; mentre Milone reca «afectat», de Riquer significativamente non si pronunzia e, pur lasciando insoluto il verso, riporta come possibile la congettura di Pattison. Comunque si voglia rendere il lemma, è chiaro l’intento parodico di Raimbaut, il quale sembra richiamarsi alla dittologia canonica coindes e gais, significativamente presente al v. 7 dell’intertesto di Jaufre Rudel Belhs m’es l’estius.
20 e ss. Ha qui inizio una lunga serie d’ingiurie di carattere marcabruniano: Raimbaut, con sarcasmo fortemente autoaggressivo, descrive la propria metamorfosi di individuo “castrato”.
Si noti che, mentre i vv. 20-22 presentano correttamente tutti gli aggettivi al nominativo, i vv- 23-24 mostrano un’inaspettata deviazione verso la forma obliqua, confermata dall’intera tradizione manoscritta. È possibile che la natura non lirica, ma paradossale e giocosa del gap possa aver spinto Raimbaut a operare una «infrazione controllata»[27] sulle comuni norme morfologiche.
23. Tutti i manoscritti recano conclucher. La lezione è chiaramente corrotta (< lat. CONDŪCERE) e, presumibilmente ascrivibile a confusione grafica, costituisce errore d’archetipo. La medesima tipologia di errore compare al v. 25: aclubertz (ma < lat. AD + APERIRE).
24. De tot lo plus croi guerr[i]er. Come già sopra esposto, si accogliere l’integrazione di [i], già in Pattison, nel tradito guerrer. Si rigetta inoltre, poiché innecessaria, la congettura totz (e la conseguente resa in complemento partitivo), posta in nota da Appel e inserita a testo da Pattison, e si predilige il tradito (de) tot avverbiale, grammaticalmente ineccepibile.[28]
25. fol adubert: l’espressione, adoperata per designare il marito che porta via il poeta impotente dalla propria moglie, rimanda ad un altro componimento di Raimbaut, S’il cors es pres, la lengua non es presa (PC 389, 39), nel quale l’io lirico è allontanato e imprigionato dal marito di Joglar, poiché teme una relazione adulterina fra i due confidenti.[29]
26. fais, «fardello» (< lat. FASCIS). La prima apparizione del lemma è in Guglielmo IX, Pos de chantar m’es pres talenz, cobla VIII: Mout ai estat cuendes e gais[30] | mas Nostre Seigner no·l vol mais; | ar non puesc plus soffrir lo fais | Tant soi aprochatz de la fi (ed. Eusebi 2011): «Molto sono stato amabile e gaio, ma Nostro Signore più non lo vuole: ormai non posso sopportare il fardello, tanto sono vicino alla fine»; ancora, in Belhs m’es l’estius, vv. 54-56: E sapchatz tug cominalmen | qu’ie·m tenc per ric e per manen, | car soi descargatz de fol fais «E sappiate tutti che io mi ritengo ricco e fortunato poiché mi sono liberato d’un folle fardello», cui risponde il moralista Marcabruno in Ans que·l terminis verdei, vv. 21-22: Ben es cargatz de fol fais | qui d’Amor es en pantais (ed. Dejeanne 1909): «È ben caricato di un folle fardello colui che è oppresso da Amore». Il religioso fardello di Guglielmo IX, «peso della vita per chi è malato o vecchio»[31], assume in Jaufre Rudel e Marcabruno il significato “spirituale” di peso amoroso, strettamente connesso al sentimento di un «amour vénal».[32] Risulta dunque, a questo punto, più chiara l’ironia di Raimbaut, per il quale il fardello avvertito dai mariti (la loro folle gelosia) non ha più ragion d’essere, poiché a cantare le loro donne è un uomo privato dei suoi attributi.
27. quar ia m'en loigna; il verbo lonhar, «allontanarsi, fuggire» (der. < lat. LONGE), cardine della lirica rudelliana, si trova non a caso al v. 31 di Belhs m’es l’estius: qu’anc no fui tan lunhatz d’amor, | qu’er no·n sia sals e gueritz (ed. Chiarini 1985): «Poiché in alcun momento mi sono tanto allontanato dall’amore da non esserne ora salvo e guarito».
29. Milone emenda la congiunzione condizionale se, tradita da tutti i testimoni, in si. Non ritenendo la correzione necessaria in quanto variante grafica possibile, accogliamo a testo la lezione manoscritta.
32. per qu'om pela·l cais: Pattison emenda la lezione dei manoscritti, accolta invece da Appel, per que·m pel al cais; l’intervento, che trova l’approvazione di Riquer e Milone, sembra essere legittimo e motivato da ragioni “d’uso”, dacché riferibile all’espressione idiomatica se pelar lo cais[33], segno di perduta mascolinità.
33. peroigna: congiuntivo potenziale del verbo peronher < lat. PERUNGERE.
35. ab cors entier: il gioco poetico di Raimbaut è qui duplice: da un lato, come evidenziato da Appel, egli pone deliberatamente l’accento sull’integrità della donna, enfatizzando così la propria condizione di uomo “mutilo”; dall’altro, proprio per tale fisica carenza, egli potrà tentare di avvicinarla, divenendo un fin aman e ottenendo quella purezza di sentimento da lui sbeffeggiata proprio in principio del gap.[34] Il tono, sia nuovamente ribadito, è gustosamente ironico.
37 e ss. Seguo l’interpretazione di Milone, che vede in questi versi una semplice ri-affermazione poetica: se la nuova condizione nella quale è caduto non glielo impedirà, l’io lirico seguiterà a cantare, giacché la gaiezza del canto gli permette di sopportare lo stato doloroso di “castrato”.[35] Fratta ha ravvisato una stretta relazione fra i vv. 41-42 di Lonc temps e i vv. 1-2 della lirica di Bernard de Ventadorn Per melhs cobrir lo mal pes e.l cossire | chan e deport et ai joi e solatz! :«Per meglio nascondere il cattivo pensiero e il dolore | canto e mi diverto e ho gioia e sollazzo!».
39. Puistel'hui sus en sa groigna: cfr. Arnaut Daniel, Autet e bas entre·ls prim fuelhs (PC 29.5), vv. 26-27: e pustel'ai'en sa gauta | sel c'ab lei si desacorda (ed. Perugi 1978, p. 237): «Possa avere una pustola alla guancia colui che con [Amore] è in disaccordo».
40. A tot marit: si predilige in questa sede la lezione tradita dai codici e accolta da Milone, non recante problematiche di natura grammaticale; la congettura totz di Pattison non sembra necessaria.
Nel giustificare la correzione, Pattison aggiunge che la comica maledizione dovrebbe presentare un congiuntivo desiderativo, piuttosto che un presente indicativo (aya, dunque, e non a), ma che tale forma dovette sembrare a Raimbaut più immediata e incisiva.[36]
Mantenendo la lezione tradita dai codici, a assume la funzione di preposizione introducente un complemento di termine.
43 e ss. In questa cobla di chiusura del componimento, Raimbaut fa intravvedere il suo gioco parodico: egli (ma ricordiamo: è sempre la persona loquens) si è offerto non a una, ma a più donne, e grazie a queste numerose seduzioni ha potuto sperimentare il joi d’amor; tuttavia – aggiunge – poiché ora l’evirazione rende impossibile il compimento di un amore sensuale, è destinato a engraissar solo con il desiderio e la vista delle donne amate, quasi come un perfetto amante cortese. Il solament del v. 47, posto in posizione forte, rivela però lo sguardo scanzonato del poeta di fronte alla natura paradossale e autopunitiva della fin’amor.
Un trattamento meno giocoso del tema si ritrova in Pos trobars plans (PC 389, 37), lirica indirizzata a una donna lontana, nella quale Raimbaut ammette di contentarsi del desiderio di lei, salvo poi sperimentare gli accessi di un sentimento disforico.
46. Il motivo dell’“ingrasso” conseguente alla castrazione ribalta completamente, parodiandolo, il magrir di Jaufre Rudel, visibile esito della piaga d’amore, per cui si vedano i vv. 13-15 della lirica Non sap chantar qui so non di (PC 262, 03): Colps de joi me fer, que m’ausi, | e ponha d’amor que⸱m sostra | la carn, don lo cors magrira (ed. Chiarini 1985, p. 57): «Un colpo di gioia mi ferisce, ta». In Raimbaut il corpo non è più consunto, ma anzi reso grassoccio e rubizzo a seguito della sofferta mutilazione, mentre l’animo diviene codardo e l’amore, in aperta contro-eco rudeliana, si riduce a passione causata dalla visio.[37] Il tema ricompare ai vv. 54-56 di Entre gel e vent e fanc (PC 389, 27): Que tan grans voluntatz m’en nais | qu’en un jorn – tan ben c’om no·m pais – | en pert so que d’un mes engrais (ed. Pattison 1952, p. 116): «In me è nato un desiderio tanto grande che in un giorno – benché mi si nutra bene – perdo tutto il grasso che metto su in un mese».
Secondo quanto rilevato da Topsfield[38], è possibile che la parodia tocchi anche il componimento di Peire d’Alvernhe, Bel m’es quan la roza floris (PC 323, 7), vv. 32-35: No pot hom aver fizansa / si·l carnal amar non vol;|quar vei que cors non a cura | mas de senhor que engrais (ed. Del Monte 1955, pp. 137-138): «Non può l’uomo aver garanzia, se non vuole amore carnale; poiché vedo che il corpo non ha cura se non di un signore che ingrassa»; Raimbaut starebbe qui giocando con l’idea di perfetto e integrato joi cui accenna Peire anche in altri componimenti (cfr. Chantarai, pus vey qu’a far m’er, vv. 29-32, e Deiosta⸱ls breus iorns e⸱ls lonc sers, vv. 15-18) e che già in sé rappresenta un’inversione moralistica - di tono marcabruniano - del sottile spiritualismo di Jaufre Rudel.
49. Il castello di Monrosier (Monrozier o Montrosier), nel dipartimento dell’Aveyron, apparteneva ai conti di Rodès, in relazioni feudali con la famiglia di Raimbaut. Ulteriori riferimenti nelle tornadas di Amors, com er? Que farai? (PC 389, 8), vv. 57-61: E ma chanso si no fos | alques ves Amor esquiva, | tengra ves Rodes en lay | Comtessa nominativa, | pros e bell’ab cor veray (ed. Pattison 1952, p. 132): «E se la mia canzone non fosse un po’ ostile nei riguardi di Amore, la avrebbe là verso Rodès una nobile Contessa, prode e bella dal cuore sincero» e di Assatz sai s’amor ben parlar (PC 389, 18), vv. 60-61: E mos vers tenra, qu’era⸱l paus, | a Rodes, don son naturaus (ed. Pattison 1952, p. 135): «Ed ella avrà il mio vers, ché ora lo concludo, a Rodès, di cui sono natio».[39]
La contessa a cui la lirica è indirizzata potrebbe essere Ermengarda di Creyssel, moglie di Uc I conte di Rodès, oppure Agnès, figlia di Guilhelm d’Alvernha e moglie di Ugo II di Rodès. Entrambe le dame furono contesse di Rodès, tuttavia è più verosimile che Raimbaut si rivolgesse alla più giovane Agnès, che egli avrebbe potuto conoscere nel 1157, in occasione del matrimonio del cugino Guillaume VII di Montpellier e Matilde di Borgogna.[40]
50. gaug entier: l’espressione, evocante la donna ab cors entier del v. 35, può avere una duplice valenza ironica. Difatti il joi, degradato da un piano spirituale a una dimensione meramente fisica, non può essere integro, giacché il corpo dell’amante non lo è più. Dall’altro lato, il curioso ma raffinatissimo modo con cui il poeta costruisce ed elabora il motivo della castrazione della persona loquens, dimidiata fra gli accessi farseschi e l’esagerata professione di sincerità nella rassicurazione ai mariti, cela un’irriverenza che potrebbe forse mutare per conversum l’iniziale motivo della castrazione in vera e propria vanteria di prodezza sessuale, rendendo autentico il gaug entier con cui il componimento si conclude.[41]